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Vendita della partecipazione di controllo e garanzie contrattuali

CAPITOLO PRIMO
L’ALIENAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE TOTALITARIA O DI “CONTROLLO” TRA VENDITA DEL PATRIMONIO E VENDITA DELLE SOLE QUOTE: LE CLAUSOLE DI RAPPRESENTAZIONE E GARANZIA

Sezione Prima
IL PROBLEMA, LA STRUTTURA DELL’OPERAZIONE E LA NATURA DELLE CLAUSOLE DI RAPPRESENTAZIONE E GARANZIa

1. L’alienazione della partecipazione totalitaria o di «controllo» in una società di capitali. – 2. Le clausole di garanzia: significato e funzione. – 3. (Segue) Classificazione delle pattuizioni più diffuse. – 4. La struttura del­l’operazione. Due diligence e approvazione del contratto da parte dell’or­gano di gestione – 5. (Segue) Contratto preliminare di trasferimento delle partecipazioni ed effetti sulle clausole di garanzia. – 6. (Segue) I meccani­smi di legittimazione a far valere le clausole di garanzia: contratto per per­ sona da nominare, consenso anticipato alla cessione del contratto prelimi­nare e contratto preliminare a  favore di terzo. –    7. Le clausole di  garan­zia in senso stretto: in particolare le c.d. clausole di rappresentazione. L’e­voluzione del common law. – 8. (Segue) Natura delle representations ed effetti della loro violazione: responsabilità da dichiarazioni inesatte. – 9. (Segue) Diversità degli effetti  delle clausole di  rappresentazione rispetto alle clausole di garanzia. – 10. Le c.d. legai warranties: funzione e limiti all’autonomia privata nel quadro delle disposizioni in materia di compra­ vendita. –   11. (Segue) Critica alla tesi prevalente: necessità di distinguere i difetti del diritto trasferito e i vizi della cosa; applicazione dell’art. 1489 c.c. e conseguenze della soluzione accolta. – 12. (Segue) L’aliud pro alio nel caso di trasferimento della partecipazione di controllo. – 13. Natura delle clausole più discusse: le c.d. business warranties. Critica alla tesi che le riconduce a promesse di qualità (art. 1497 c.c.). – 14. (Segue) Ulteriori critiche: incorporalità dell’oggetto ed origine delle clausole in esame. – 15. Critica alla tesi dei patti autonomi, dell’aliud pro alio e dei contratti collegati. – 16. Critica alla tesi che configura le clausole di garanzia quali «parte integrante della  prestazione  traslativa».  Le  clausole  sono  presta­ zioni accessorie del contratto. –   17. (Segue) Nozione di clausola di garanzia. – 18. Promessa del fatto del terzo e garanzia di indennizzo: analogie e differenze.

  1. L’alienazione della partecipazione totalitaria o di «controllo» in una società di capitali

Il contratto che ha per effetto l’alienazione di partecipazioni in società per azioni o in società a responsabilità limitata costituisce, nell’attuale contesto economico, uno degli strumenti maggiormente utilizzati per la realizzazione di molteplici forme di ristrutturazione e integrazione tra imprese; tale contratto, infatti, consente di fatto, nel caso in cui venga venduta una quota che rappresenta una rile­vante frazione o l’intero capitale sociale (1), il «passaggio» dell’a­zienda o, comunque,  del patrimonio della società (2),  beneficiando di un regime fiscale particolarmente vantaggioso (3).
Come è noto, la maggior parte delle attività economiche – e perfino l’amministrazione di patrimoni privati – è esercitata attra­verso la veste societaria, con la conseguenza che le numerose ope­ razioni realizzanti il passaggio della gestione delle imprese com­merciali tra diversi soggetti viene attuata mediante il trasferimento di  partecipazioni sociali (4).  Tale  trasferimento costituisce altresì


(1) Si ipotizza nella prima parte del presente lavoro che il contratto in esame sia qualificabile come  una  compravendita, ai sensi e per gli effetti degli art. 1470 ss. c.c., salvo  verificare,  nel caso vi siano le c.d. clausole di  garanzia, se esso. non possa qualificarsi diversamente (in particolare: come contratto ati­pico o come pluralità di contratti collegati),  con le dovute conseguenze  in  tema di disciplina; v. E. PANZARINI, Cessione di pacchetti azionari: il contenuto delle clausole di garanzia, in I contratti del commercio, dell’industria e del mercato fi­nanziario, Trattato diretto da F. Galgano, vol. I, Torino, 1995, 250 e nt. 4. La vendita di partecipazioni sociali costituisce in ogni caso una delle molteplici ipotesi di vendite c.d. speciali in  virtù del particolare  bene oggetto del con­tratto: sulle vendite speciali v. per tutti G. SANTINI, Il commercio. Saggio di economia del diritto, Bologna, 1979, 358 ss.; A. LUMINOSO, La compravendita, Torino, 2003, 151 ss.; C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, in Trattato Vas­salli, Torino, 1993, 205: «la vendita esprime un determinato tipo di contratto, caratterizzato da una determinata causa e da un determinato oggetto, cioè l’a­lienazione. Ora, tale oggetto si diversifica  secondo la struttura del diritto alie­nato richiamando regole diverse in ordine ai requisiti e agli effetti».
Con il termine alienazione si fa riferimento ai negozi inter vivos a titolo oneroso che abbiano come effetto il trasferimento della partecipazione sociale qualifi­cata: v. F. MESSINEO, La partecipazione sociale ( a proposito di un libro recente), in Riv. soc., 1966, 957 nt. 11.
(2) Per  l’omogeneità  (normalmente)  delle  nozioni  di  azienda  e  patrimo­nio sociale v. G. PALMIERI, Scissione di società e circolazione dell’azienda, To rino, 1999, 186; M. CASSOTTANA, Rappresentazioni e garanzie nei conferimenti d’azienda in società per azioni, Milano, 2006, 72 nt. 38.
(3) In merito alle differenze dal  punto di vista fiscale tra  il trasferimento di partecipazioni sociali ed il trasferimento di azienda si veda in precedenza il d.lgs.  8  ottobre  1997,  n.  358  (“Riordino   delle  imposte  sui  redditi  applicabili alle operazioni  di cessione e conferimento  di  aziende, fusione,  scissione e  per­ muta di partecipazioni”), che ha previsto  la  possibilità  di  assoggettare  ad un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi le plusvalenze realizzate sia  me­diante la cessione  di  aziende,  purché  possedute  per  un  periodo  non  inferiore  a tre anni, sia mediante la  cessione  di  partecipazioni  di  controllo  e  di  collega­mento ai sensi dell’art. 2359 c.c., che risultino iscritte come tali nelle immobilizzazioni finanziarie degli  ultimi  tre  bilanci.  Su tale disciplina  v. M.  BEGHIN, La cessione ed il conferimento di aziende e di partecipazioni nella disciplina del d.lgs. n. 358/1997, in Riv. dir. trib., 1998, I, 535 ss.; F. PAPARELLA, Riflessioni sulla nuova disciplina sostanziale della cessione di azienda ( e di partecipazioni di controllo e di collegamento) e dello scambio di partecipazioni ai fini delle impo­ste sui redditi, in Riv. dir. trib., 1999, I, 359; M. MANERA, L’imposizione dei ca­pital gains nell’ambito della disciplina complessiva sui trasferimenti delle parteci­pazioni, in Giur. imp., 2001, 1410  ss.  Ora  si  veda,  per  prime  considerazioni dopo le recenti riforme in materia, R. LUPI, La nuova disciplina IRES: le ope­razioni straordinarie ed i riflessi nell’elusione, in Riv. dir. trib., 2004, I, 609 ss.; F. PEDROTTI, La partecipation exemption quale nuovo regime ordinario di circo­lazione delle partecipazioni societarie, in Riv. dir. trib., 2005, 1137 ss.; R. PER­ROTTA, Il conferimento d’azienda, Milano, 2005, 332 ss.
Per  il problema del trattamento  tributario della vendita di partecipazioni so­ciali in Francia v. ampiamente P. MOUSSERON, Les conventions de garantie dans les cessions de droits sociaux, Paris, 1997, 169 ss.; in Germania v. per riferimenti C. LEIP, Die Veräußerung von Anteilen an Kapitalgesellschaften durch Kapitalgesellschaften, in BB, 2002, 1839 ss.; per la determinazione della legge favorevole per le operazioni aventi ad oggetto società che hanno  la sede  in  Stati diversi  cfr. G. KRAFT, Steuerliche Gestaltungsoptimierung beim internationalen Unternemhenskauf, in RIW, 2003, 641 ss.
Sulle ulteriori differenze tra trasferimento di azienda e di partecipazioni e la rispettiva convenienza, si ritornerà comunque infra, nel testo.
(4) Cfr. AA.VV., Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferi­mento, a cura di F. Bonelli e M.  De  Andrè,  Milano, 1990,  I  ss.; G.G. PETTA­RIN, Acquisizione, fusione e scissione di società, Milano, 1992, 33 ss.; A. PETTI­NARI, La cessione di quote di società commerciali, Milano, 1997, 1 ss.; E. PANZARINI (nt. 1), 247; S.  LANTINO,  Acquisizioni di aziende e partecipazioni, Mi­lano, 2002, 22 ss.; C. d’ALESSANDRO, Compravendita di partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente, Milano, 2003, 1 ss.; A. TINA,  Il contratto  di acquisizione di partecipazioni societarie, in corso di pubblicazione; per un’analisi di tipo eco-

Denunzia al tribunale, stato di liquidazione della società e riforma del diritto societario

TRIBUNALE DI VENEZIA -27  gennaio 2004 (decreto) – ZACCO Presidente – SPACCASASSI Estensore – Pubblico ministero dott. S. c. amministratore unico
G.B. e sindaci della I. s.p.a.

Società – Società per azioni – Controllo giudiziario – Stato di liquidazione della società –
Improcedibilità del ricorso.
(Codice civile, art. 2409).

Lo stato di liquidazione della società determina l’improcedibilità del ricorso ex art. 2409 c.c., in quanto comporta la cessazione dell’attività d’impresa e quindi il venir meno dell’attualità delle irregolarità denunziate (1).
(Omissis). – Il P.M. in data 14 gennaio 2003 ha richiesto una ispezione alla società I. s.p.a. facendo proprie e recependo una dettagliata ed articolata denuncia dei sindaci, denuncia che aveva anche portato all’apertura di indagini preliminari nei confronti dell’amministratore per i reati di cui agli artt. 2621 e 2635 c.c.
Rilevavano i sindaci: come la società I. vantasse un credito verso la società M.T. s.p.a. di lire 1,6 miliardi, di cui 400 milioni di insoluti, e che l’amministratore unico G.B. nulla aveva fatto per recuperare detto credito; che il menzionato G.B. era anche sindaco della debitrice M.T.; che essi sindaci non erano stati messi nella condizione di poter vedere la necessaria documentazione relativa al bilancio del 2001 sul quale comunque avevano espresso un parere negativo; che vi erano elementi per ritenere fon­ dato sospetto che la M.T. fosse il vero «dominus » e che fosse la stessa a dettare alla I. condizioni e condotte; che la perdurante inattività della società comportava una perdita patrimoniale e la conseguente necessità dei provvedimenti di cui all’art. 2448 n. 4.
Nel costituirsi G.B. rilevava che pur sussistendo il credito nei confronti della M.T., tuttavia lo stesso non era certo nell’ammontare, stante le contestazioni effettuate, e comunque erano inopportq.ne azioni coattive o la richiesta di fallimento della M.T. stessa che avrebbero comportato anche il fallimento della società I.. Rilevava che era preferibile una transazione con la M.T. e concordare un piano di rientro con le banche.
Sono stati sentiti G.B. ed i sindaci. Questi ultimi si sono riportati alle denunce da­ gli stessi effettuate alla Procura della Repubblica.
All’udienza del 20 marzo 2003 il collegio disponeva con decreto la nomina dell’ispettore giudiziario al fine di verificare se sussistevano o meno le irregolarità lamentate dal P.M.
L’ispettore Dott. T. espletava l’incarico affidatogli ed in data 20 ottobre 2003 depositava un’articolata relazione che riscontrava la sussistenza dei fatti lamentati dai sindacati    posti all’attenzione del P.M., escludendo tuttavia che G.B. abbia ostacolato le verifiche del collegio sindacale.
All’odierna udienza il P.M. insisteva· per la nomina di un amministratore giudiziario, i sindaci si rimettevano al deciso del tribunale, mentre il difensore di G.B., che pure negava che esistessero i presupposti per la nomina dell’amministratore giudiziario, insisteva nell’eccezione di inammissibilità della richiesta del P.M. atteso che la società era stata posta in liquidazione il 5 novembre 2002.
La problematica circa l’ammissibilità o meno della procedura di cui all’art. 2409 c.c. anche quando la società è stata posta in liquidazione è stata affrontata dalla giurisprudenza di merito con decisioni non unanimi. Fra altre, in senso positivo, Tribunale Trani, 30 ottobre 2001, in Società, 2002, 354 («Il controllo giudiziario non solo può essere efficacemente concluso con l’adozione degli opportuni provvedimenti ripristina­ tori della regolarità nei confronti della società posta in liquidazione nelle more dello stesso procedimento, ma può anche esser legittimamente promosso nei confronti di una società già in liquidazione per eliminare gravi irregolarità commesse sia prima sia dopo lo scioglimento della stessa; il sindacato del tribunale, infatti, può essere esercitato fino al momento dell’estinzione della società, che si realizza dopo la cessazione di ogni attività liquidatoria. Questa interpretazione estensiva non è impedita dall’esistenza del rimedio previsto dall’art. 2450 c.c. della revoca per giusta causa dei liquidatori, che riguarda una fattispecie diversa da quella regolata dall’art. 2409 c.c.»). Per la soluzione negativa, tra altre, si veda Tribunale Ragusa, 26 ottobre 2001, in Giur. comm., 2002, II, 632 («Va esclusa l’ammissibilità o la procedibilità del controllo giudiziario ex art. 2409 c.c. allorché la società sia messa in stato di liquidazione. Ciò in quanto la sopravvenuta deliberazione di messa in liquidazione della società elimina in radice l’esigenza di ripristino della normale gestione di essa e, soprattutto, la nomina di un amministratore giudiziario mal si concilia con la figura di un liquidatore regolamente nominato dalla società e non rimuovibile dal giudice nell’ambito dell’avviato procedimento»).
Ritiene il Collegio che sul punto assumono significativa importanza le pressoché costanti decisioni che da anni ha assunto la Corte d’Appello di Venezia, secondo cui la liquidazione della società preclude l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. anche se intervenuta in pendenza del relativo procedimento, in quanto non consente il perseguimento dello scopo precipuo del procedimento stesso, autonomo e complementare rispetto agli altri mezzi previsti dall’ordinamento giuridico per la tutela contro gli atti di cattiva amministrazione, essendo finalizzato unicamente a garantire l’interesse generale alla corretta amministrazione delle società e potendo, dunque, solo indirettamente concorrere a soddisfare, in quanto coincidenti, gli interessi particolari dei soci.
Condividendo tale assunto, ritiene il Collegio: a) che lo stato di liquidazione, comportando la cessazione dell’attività d’impresa, essendo consentite solamente le opera­ zioni correlate strumentalmente al fine della definizione dei rapporti ancora in corso e della conversione dei beni in denaro, pone in essere una situazione per la quale viene meno, per carenza di ogni interesse, la funzione propria dei provvedimenti adottabili ex art. 2409 c.c.; b) che, pertanto, essendo le irregolarità denunciate prive del requisito dell’attualità, da accertarsi con riferimento all’indicato interesse tutelato, i provvedi­ menti richiesti non sono adottabili (v., tra gli altri, i decreti della Corte d’Appello di Venezia 27 febbraio 2002, 21 giugno 2001 e 17 novembre 1998); e) che, peraltro, il corretto esercizio dei poteri e dei compiti del liquidatore comporta l’accertamento delle eventuali irregolarità commesse dagli amministratori e il suo attivarsi, con gli strumenti previsti dall’ordinamento, per l’eliminazione o l’attenuazione dei consequenziali effetti pregiudizievoli sulla formazione dell’attivo.
Per le suesposte motivazioni deve essere dichiarata l’improcedibilità del ricorso. Quanto alle spese, nulla va disposto, trattandosi di procedimento di volontaria giurisdizione, per il quale non si rende applicabile il principio della soccombenza, posto dall’art. 91 c.p.c. con riferimento ai soli giudizi di natura contenziosa (cfr. Cass. n. 9636/97).


NOTE:
(1) Denunzia al tribunale, stato di liquidazione della società e riforma del diritto societario.
SOMMARIO: 1. Denunzia al tribunale e liquidazione: il caso concreto. – 2. Stato di liquidazione, continuazione dell’attività di impresa e attualità delle irregolarità. – 3. Interessi sottesi al procedimento ex art. 2409 c.c. e liquidazione della società. – 4. Revoca dei liquidatori alla luce delle nuove norme sui procedimenti. in camera di consiglio (artt. 25 ss. d. lgs. n. 5 del 2005).

P.Q.M.
dichiara improcedibile il ricorso.
1. Il Tribunale di Venezia conferma, nella pronuncia in epigrafe/l’orientamento della Corte d’Appello veneta secondo il quale la liquidazione della società, anche se intervenuta in pendenza di un procedimento di denunzia per gravi irregolarità, preclude l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. (1).

Nel caso in esame i sindaci di una s.p.a. presentavano al pubblico ministero un articolato esposto di gravi irregolarità nella gestione (2), osservando in particolare che la società vantava un ingente credito nei confronti di altra società, ma che l’amministratore unico non aveva fatto nulla per recuperare tale credito. Ciò in quanto, a dire dei denunzianti, questi aveva una posizione di interesse nella società debitrice (di cui era stato anche sindaco (3). Il collegio sindacale contestava all’amministratore unico, inoltre, irregolarità contabili e nella redazione dei bilanci; affermava, infine, che la perdurante inattività della società avesse comportato una rilevante perdita e quindi la necessità di ridurre il capitale.
Il pubblico ministero, facendo propri i contenuti della denunzia dei sindaci, richiedeva, ex art. 2409 c.c., l’ispezione della società, che veniva disposta dal tribunale, e l’ispettore giudiziario confermava quasi integralmente la sussistenza delle irregolarità lamentate dai sindaci. Il pubblico ministero richiedeva, pertanto, la nomina di un amministratore giudiziario che rimuovesse le accertate irregolarità e, se del caso, proponesse azione di responsabilità; la difesa dell’amministratore unico, invece, sosteneva l’inammissibilità della richiesta, poiché la società, in pendenza del procedimento ex art. 2409 c.c., era stata posta in liquidazione (4).
Il Tribunale di Venezia, accogliendo quest’ultima richiesta, dichiara improcedibile il ricorso, nonostante fosse stato nominato liquidatore della società il precedente amministratore unico della stessa (5); e giunge a tale conclusione in base a due argomenta­ zioni.
In primo luogo, affermano i giudici veneziani, lo stato di liquidazione determina la cessazione dell’attività di impresa, essendo consentite in tale fase solo le operazioni correlate strumentalmente alla definizione dei rapporti. ancora in corso e alla conversione dei beni in denaro; viene quindi meno, per carenza di ogni interesse, la funzione propria dei provvedimenti. ex art. 2409 c.c. Il procedimento di denuncia per gravi irregolarità è finalizzato, infatti, secondo il Tribunale di Venezia, unicamente a garantire l’interesse generale alla corretta amministrazione della. società, e può solo indirettamente concorrere a soddisfare gli interessi particolari dei soci; nel momento in cui, a seguito della liquidazione, non vi è più alcuna attività d’impresa, cessa, pertanto, lo scopo del giudizio instaurato.
In secondo luogo, continua il decreto in commento, le irregolarità denunziate risultano prive del requisito dell’attualità per il sopravvenire dello stato di liquidazione; i provvedimenti richiesti dal pubblico ministero non possono quindi essere adottati, mancando uno dei presupposti del procedimento. L’esercizio dei poteri e dei compiti del liquidatore determina infatti l’obbligo, per tale organo, di attivarsi per l’elimina­ zione o l’attenuazione degli effetti pregiudizievoli delle irregolarità commesse dagli amministratori; da ciò consegue la carenza dell’attualità di quest’ultime e l’improcedibilità del giudizio.
2. Le motivazioni che giustificano in diritto il decreto del Tribunale di Venezia non paiono convincenti.
Lo stato di liquidazione della società non comporta, di per sé, la cessazione dell’attività d’impresa. Anzi: la liquidazione è attività d’impresa (6). La continuazione, anche parziale, di quest’ultima – seppure in senso funzionale alla liquidazione della società e per il miglior realizzo – è un’ipotesi del tutto normale anche dopo il verificarsi di una causa di scioglimento e la nomina del liquidatore. La prosecuzione dell’attività durante la liquidazione, già riconosciuta sia in dottrina che nella giurisprudenza della Cassazione (7), e addirittura prevista dalla legge fallimentare (art. 90 r.d. n. 267 del 1942), è ora espressamente disciplinata dal legislatore in due norme (artt. 2487, 1° comma, lett. c) e 2490, 5° comma, c.c.), relative ai criteri di svolgimento della liquidazione deliberati dall’assemblea e all’indicazione dell’attività d’impresa nei bilanci (8).
La causa cli scioglimento, e, ora, dopo la riforma del diritto societario, la successiva pubblicità della nomina dei liquidatori (e quindi l’entrata della società in stato cli liquidazione) (9), determinano infatti un mutamento funzionale dell’organizzazione societaria e una parziale modifica delle regole di produzione dell’attività comune (10); comportano  un diverso equilibrio degli interessi rilevanti (11);   non  producono, invece, un cambiamento del contratto sociale o la cessa=ione dell’impresa (12).
Alla luce di tali osservazioni, risulta quindi criticabile anche l’affermazione secondo cui lo stato cli liquidazione determina automaticamente il venir meno dell’attualità delle irregolarità commesse. Ciò non vale sicuramente per il semplice verificarsi di una causa cli scioglimento: basterebbe, altrimenti, una delibera dell’assemblea di scioglimento anticipato della società (art. 2484, n. 6 c.c.) per vanificare il procedimento ex art. 2490 c.c. (13).
Neppure la nomina dei liquidatori, e la pubblicità della stessa (v, ora art. 2487-bis c.c.), potrebbe, peraltro, rendere di per sé non più attuali le irregolarità commesse da­ gli amministratori; per sostenere tale conclusione occorre siano incaricati della liquida­ zione dei soggetti che garantiscano un’adeguata professionalità e l’eliminazione delle irregolarità (14).
Potrebbe dunque risultare opportuno, anche dopo la nomina del liquidatore (ora) ex art. 2487 c.c., che il tribunale disponga il prolungamento dell’incarico all’ispettore giudiziario, con lo specifico compito di vigilare sull’attività degli organi sociali (15); op­ pure che preferisca nominare un amministratore giudiziario (16). Il ruolo che quest’ultimo è chiamato a svolgere non è, infatti, quello di« amministrare, ma di assumere temporaneamente il governo della società nello stato – attivo o liquidativo – in cui si trova, al solo fine di rimuovere le irregolarità ed eventualmente di esperire l’azione di responsabilità nei confronti dei precedenti amministratori (17).
3. Non pare possa sostenersi che lo stato di liquidazione necessariamente determini l’improcedibilità della denunzia ex art. 2409 c.c.; e ciò anche quando si ritenga, come dichiara il Tribunale di Venezia, che il procedimento in esame sia unicamente volto a garantire l’interesse generale alla corretta amministrazione della società. Se l’interesse tutelato dal procedimento fosse quest’ultimo, la richiesta di nomina di un amministratore giudiziario sarebbe, infatti, ancor più giustificata durante la liquidazione; in questa fase di svolgimento (conclusivo) dell’attività sociale la protezione di interessi generali risulta, come noto, rafforzata (18). Ciò in considerazione della necessità che venga svolto un procedimento di liquidazione, che non può essere omesso, e in virtù delle diverse nonne che da un lato rendono obbligatoria la pubblicità di tale procedi­ mento (artt. 2484, 3° comma; 2487-bis, 1° e 2° comma; 2490 c.c.), dall’altro prevedono la responsabilità dei soggetti coinvolti (amministratori e liquidatori: artt. 2485, 2486, 2489 e 2491 c.c.).
Del resto, la conclusione secondo cui il procedimento in esame è unicamente volto a garantire l’interesse generale alla corretta amministrazione della società risulta forte­ mente criticata – e da tempo – in dottrina, la quale riconosce che la denunzia al tribunale abbia una funzione -prevalente, anche se non esclusiva – di tutela dei soci di minoranza, dei creditori della società e dei terzi in genere (19).
Quest’ultima interpretazione appare del resto rafforzata dalle novità legislative ap­portate dalla riforma del diritto societario (d. lgs. n. 6 del 2003). Nella nuova disposi­ zione dell’art. 2409 c.c. si è esclusa, Infatti, la legittimazione del pubblico ministero a promuovere la denuncia per gravi irregolarità nella gestione, salva l’eccezione delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (20); inoltre è stata introdotta dalla riforma la rilevanza del danno (anche potenziale) alla società o alle controllate quale presupposto del controllo giudiziario (21). Orbene: tali modifiche al disposto della norma sembrano rendere ora –   almeno per le società chiuse –   ancora meno fondata la tesi che la denunzia al tribunale abbia lo scopo di tutelare esclusivamente l’interesse geniale alla correttezza della gestione delle società, e non anche l’interesse della minoranza e dei creditori sociali (22).
Se dunque il procedimento ex art. 2409 c.c. protegge anche i soci di minoranza ed i creditori (e ora anche i titolari di strumenti finanziari), a maggior ragione ne appare giustificata l’operatività durante la liquidazione, ossia nel momento in cui gli interessi di tali soggetti assumono un maggior rilievo dal punto di vista normativo (23).
4. Il caso in epigrafe pennette infine di affrontare il problema degli effetti della denunzia ex art. 2409 c.c. sulla posizione dei liquidatori.
Lo stato di liquidazione della società non rende, infatti, come visto, in assoluto improcedibile il giudizio previamente instaurato, e il tribunale può sempre disporre il pro­ lungamento dell’ispezione a carico degli amministratori o la nomina dell’amministratore giudiziario. Rimane da chiedersi, peraltro, se il tribunale possa pronunciare dei provvedimenti anche nei confronti dell’organo deputato a svolgere la liquidazione della società, e ciò sia nel caso in cui il procedimento venga instaurato prima della nomina dei liquidatori, sia se la denunzia sia proposta dopo.
La tesi assolutamente dominante ritiene non vi siano ostacoli ad applicare la procedura ex art. 2409 c.c. contro i liquidatori, nel caso in cui vi sia una denuncia di gravi irregolarità direttamente proposta nei loro confronti (24). La tesi parrebbe rafforzata dalla nuova formulazione dell’art. 2409 c.c., che prevede quale presupposto della de­ nuncia le gravi irregolarità nella gestione, sia essa attiva o liquidativa.
Si stima invece che la proposizione di una denunzia verso gli amministratori non consenta al tribunale di disporre –    oltre all’eventuale designazione di un amministratore giudiziario –   anche dei provvedimenti nei confronti dei liquidatori, ed in partico­ lare la revoca di quest’ultimi, nominati nel corso della procedura (25).
Per quest’ultimo provvedimento è infatti previsto dalla legge un apposito giudizio:
l’art. 2487, ult. comma, c.c., stabilisce che il tribunale, su istanza dei soci, dei sindaci o del pubblico ministero, possa disporre la revoca del liquidatore quando sussiste una giusta causa. Orbene: si è sempre sostenuto che la previsione del procedimento ora di­sciplinato all’art. 2487, ult. comma, c.c. (e precedentemente dall’art. 2450, comma 4°, c.c.) non consentisse al tribunale, adito ex art. 2409 c.c. per gravi irregolarità degli amministratori, di assumere il provvedimento di revoca nei confronti dei liquidatori. Per due ragioni: in quanto tale richiesta non sarebbe stata soggetta, come la denuncia ex art. 2409 c.c., al rito camerale, ma avrebbe richiesto l’instaurazione di un giudizio contenzioso ordinario (26); e in quanto il tribunale sarebbe in ogni caso vincolato dalla richiesta che gli è stata presentata, e non avrebbe quindi poteri discrezionali quanto all’emanazione dei provvedimenti ex art. 2409 c.c. nei confronti dei liquidatori (27).
La prima affermazione, già fortemente criticata in dottrina nel vigore della vecchia formulazione dell’art. 2450. 4° comma, c.c. (28), deve ritenersi, con la riforma del di­ ritto societario, superata: l’art. 33 del d. lgs. n. 5 del 2003 (definizione dei procedimenti in materia di diritto societario) prevede ora che il procedimento di revoca. del liquidatore sia assoggettato al rito dei procedimenti in camera di consiglio (artt. 25 ss.), salva l’eventuale prosecuzione della controversia con il rito ordinario (art. 32) (29).
La seconda argomentazione appare ugualmente debole, alla luce delle discussioni relative alla natura del procedimento ex art. 2409 c.c. e dei poteri discrezionali riconosciuti all’autorità giudiziaria nei procedimenti in camera di consiglio (3°). Non pare, infatti, che possa escludersi la possibilità che il tribunale adotti (oltre alla nomina di un amministratore giudiziario) la revoca dei (anche dei soli) liquidatori nominati nel corso del procedimento, se essi non garantiscono un’adeguata professionalità o non si impegnano per rimuovere le irregolarità commesse.


NOTE:
(1) V. ad es. App. Venezia, 17 novembre 1998, in Società, 1999, 701 ss.
(2) È noto infatti che la giurisprudenza aveva in più occasioni considerato tra i doveri dell’organo di controllo quello di sollecitare l’attivazione del procedimento ex art. 2409 c.c., presentando un esposto al pubblico ministero: Cass., 17 dicembre 1997, n. 9252, in Società, 1998, 1025 ss.; Trib. Rimini, 23 luglio 2002, in questa Rivista, 2003, II, 187 ss.
Il nuovo testo dell’art. 2409 c.c., modificato a seguito del d. lgs. n. 6 del 2003, prevede ora la legittimazione attiva diretta del collegio sindacale (nonché del consiglio di sorveglianza e del comitato per il controllo della gestione) alla denunzia al Tribunale: v. art. 2409, ult. comma, c.c. La norma segue un orientamento (attribuzione all’organo di controllo del potere-dovere diretto di denunzia) già fatto proprio dal legislatore del Testo unico della finanza (d, lgs. n. 58 del 1998) all’art. 152: cfr. A. PATRONI GRIFFI, La denunzia al Tribunale ex art. 2409 c.c. Gli interessi tutelati, in questa Rivista, 1999, I, 159 ss.; MAGNANI, Art. 152, in La disciplina delle società quotate. Commentario, a cura di Marchetti e Bianchi, Milano, Giuffrè, 1999, 1771 ss.; CAVALLI, Art. 152, in Testo Unico della Finanza, Commentario di­ retto da G.F. Campobasso, Torino, UTBT, 2002, 1269 ss.; per un caso giurisprudenziale v. Trib. Milano, 7 giugno 2002, in Giur. it., 2002, 2098 e ss.
3) La violazione della disciplina dell’art. 2391 c.c. è frequentemente posta a fonda­ mento della denuncia e dei conseguenti provvedimenti ai sensi dell’art. 2409 e.e.: v. ex multis Trib. Firenze, 24 giugno 1993, in questa Rivista, 1993, II, 731 ss.; Trib, Napoli, 2 febbraio 1994, in Foro it., 1995, I, 1671 ss.; App. Milano, 15 settembre 1994, in Società, 1995, 199 ss.; Trib. Roma, 13 luglio 2000, in Gittr. it., 2000, 2103 ss.
(4) L’amministratore unico negava, in subordine, che esistessero i presupposti per la nomina dell’amministratore giudiziario, in quanto il credito di cui si discuteva non era a suo parere certo nell’ammontare, ed in quanto un’eventuale azione coattiva o richiesta di falli­
mento della debitrice avrebbe comportato anche il successivo fallimento della società titolare del credito.
(5) Nessuna disposizione, come noto, vieta che possa essere nominato liquidatore il precedente amministratore della società. il nostro ordinamento non prevede, peraltro, l’isti­ tuto (diffuso in altri sistemi: v. NICCOLINI, Interessi pubblici e interessi privati nella estinzione della società, Milano, Giuffrè, 1990, 357 ss.; V. PINTO, In tema di nomina giudiziale dei liquidatori e di impossibilità di funzionamento dell’assemblea, in questa Rivista, 2003, II, 401) dei c.d. geborene Abwickler, dei liquidatori-per nascita, secondo il quale gli amministratori in carica assumono automaticamente l’ufficio di liquidatori. La legge vuole infatti garantire la libera scelta, da parte dei soci, dei soggetti deputati alle operazioni di liquidazione: v. ora l’art. 2487 c.c.
(6)   0PPO, Realtà giuridica globale dell’impresa nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. dir. civ., 1976, I, 597 ss.
(7) Cfr. per tutti NICCOLINI, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in Tratt. delle s.p.a., diretto da Colombo e Portale, Torino, UTET, vol. 7, tomo III, 1997, 439 ss.; PACIELLO, Scioglimento della società per azioni e revoca della liquidazione, Napoli, ESI, 1999, 17 ss.; in giurisprudenza Cass., 19 settembre 1995, n. 9887, in Foro it., 1996, I, 2873; Cass., 12 giugno 1997, n. 5275, riportata in E. CORSO, Scioglimento e liqui­ dazione nelle società di capitali, Milano, Giuffrè, 2002, 130.
(8) Sull’interpretazione delle norme che parlano di esercizio provvisorio dell’impresa e di continuazione dell’attività d’impresa, e sulla connessa responsabilità dei liquidatori v. FERRI jr, La gestione di società in liquidazione, in Riv. dir. comm., 2003, I, 437; Niccolini, Gestione dell’impresa nella società in liquidazione: prime riflessioni sulla riforma, in Riv. soc., 2003, 895 ss.; v. anche Io., sub Art. 2490, in Società di capitali, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 1791 ss., il quale osserva (a nt. 37) che la prosecuzione dell’attività d’impresa durante la liquidazione è fatto eccezionale e consentito solo quando in concreto funzionale all’ottimizzazione dei risultati di liquidazione.
Si noti inoltre che, alla luce del nuovo disposto dell’art. 2486 c.c.• sembra configura• bile una responsabilità degli amministratori per mancata prosecuzione dell’impresa fino alla nomina dei liquidatori, se vengono compromessi – con tale omissione – l’integrità e il valore del patrimonio sociale (N1ccoL1NI, Gestione dell’impresa nella società-in liquidazione, cit., 901; E. GABRIELLI, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso a ministratori e sindaci della società fallita, in Riv. dir. priv., 2004, 11, nt. 6).
(9) In seguito alla riforma del diritto societario è necessario infatti distinguere tra effetti c.d. preliquidatori, che si producono immediatamente a carico degli amministratori al verificarsi della causa di scioglimento (v. artt. 2485 e 2486 c.c.); ed effetti che conseguono all’entrata della società nel vero e proprio stato di liquidazione (v. artt. 2487-bis e ss. C.c.). Quest’ultimo si verifica solo nel momento in cui viene iscritta nel registro delle imprese la nomina dei liquidatori, perché solo da quel momento si verifica il mutamento delle regole dell’organizzazione societaria conseguente all’attività liquidativa (v. art. 2487 bis, 2° comma, c.c.): A. PIRAS, in AA.VV., Diritto commerciale, Bologna, Monduzzi, 2004, 325.
Nel vigore della legge precedente si distingueva invece tra stato di liquidazione (cambiamento della disciplina dell’attività sociale conseguente al semplice verificarsi della causa di scioglimento, che operava di diritto) e procedimento di liquidazione (conseguente alla no­ mina dei liquidatori e caratterizzato dall’adeguamento della società alla nuova fase): cfr. per tutti MAISANO, Lo scioglimento delle società, Milano, Giuffrè, 1974, 253.
(10) ANGELICI, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1990, 1039.
(11) Si accentua, infatti, la tutela sia dell’interesse individuale dei soci sia di quello dei creditori sociali: cfr. GRECO, Sulla necessità del procedimento ‘legale di liquidazione per le società soggette a registrazione, in Foro pad., 1951, III, 93ss.; ÙPPO, Ponna e pubblicità nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1966, I, 166; MONTALENTI, Negozio di liquidazione di società personale e clausole di revisione: interessi tutelati e disciplina applicabile, in questa Rivista, 1982, II, 814 ss.; NICCOLINI, (nt. 5), 405 ss.; Io., (nt. 7), 524 ss.
(12) Si discute poi ulteriormente se il passaggio in stato di liquidazione determini una modifica dello scopo sociale, una modifica dell’oggetto sociale o una mera modificazione delle regole dell’attività: cfr. per tutti i riferimenti GALLESIO PIUMA, I poteri dell’assemblea di società per azioni in liquidazione, Milano, Giuffrè, 1986, 80 ss.; ALESSI, I liquidatori di società per azioni, Torino, Giappichelli, 1994, 27 ss.; Niccolini, (nt. 7), 433; V. PINTO (nt. 5), 390, nt. 55.
(13) Delibera per la quale ora la legge prevede, anche in seconda convocazione, la necessità del voto favorevole dei soci che rappresentino più del terzo del capitale sociale, se la società non fa ricorso al mercato del capitale di rischio (art. 2369, 5° comma, c.c.). Secondo NODARI Delibera di scioglimento della società in pendenza del procedimento di controllo giudiziario (art. 2409 c.c.), in Riv. soc., 1967, 1051 ss., e TEDESCHI, Il controllo giudiziario sulla gestione, in Tratt. delle s.p.a., diretto da Colombo e G.B. Portale, Torino, UTET, vol. 5, 1988, 266, tale delibera non potrebbe essere assunta in pendenza del procedi­ mento ex art.-2409 c.c. in quanto eluderebbe l’applicazione del procedimento di controllo giudiziario; la tesi prevalente si esprime peraltro in senso opposto: cfr. per tutti VITALE, Deliberazione di scioglimento della società in corso di procedimento ex art. 2409 c.c., in Riv. dir. comm., 1964, II, 428 ss.; CERA, Controllo giudiziario ex art. 2409 c.c. e messa in liquida­ zione della società, in questa Rivista, 1978, II, 408 ss.
(14) In sostanza può ora utilizzarsi il nuovo 3° comma dell’art. 2409 c.c. per sostenere che, anche nel caso in cui vi sia una «sostituzione» del ruolo dei gestori (passaggio da amministratoti ai liquidatori), il tribunale possa valutare la competenza e la professionalità dei nuovi per decidere se sospendere (o chiudere) il procedimento: v. nel testo.
Sembra quindi che non si possa dare una risposta univoca al problema degli effetti dello stato di liquidazione (e quindi, ora, degli effetti della nomina e pubblicità dei liquida tori: v. nt. 9) sul procedimento ex art. 2409 c.c.; occorrerà invece considerare se tale nomina comporti in concreto il venir meno dell’attualità delle irregolarità. Sul problema della procedibilità del procedimento ex art. 2409 c.c. in seguito all’entrata della società in stato di liquidazione v. per la tesi negativa CERAMI, Il controllo giudiziario sulle società di capitali (art. 2409 c.c.), Milano, Giuffrè, 1954, 55; NODARJ, (nt. 13), 1049; TEDESCHI, (nt. 13), 296; FERRARA jr.-CORSI, Gli imprenditori e le società12, Giuffrè, 1′.filano, 2001, 560; per la tesi positiva A. PATRONI GRIFFI, Il controllo giudiziario sulle società per azioni, Napoli, Jovene, 1971, 341 ss.; DOMENICHINI., Il controllo giudiziario sulla gestione delle società per azioni, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, UTET, 1985, 597 ss,; CERA, Ancora sull’applicabilità del­ l’art. 2409 c.c. alle società in liquidazione, in questa Rivista, 1988, II, 612 ss.; PATELLI, Con­ trollo giudiziario in fase di liquidazione, in Società, 1991, 1373 ss.; MASTURZI I, I poteri deliberativi dell’assemblea nelle more del controllo giudiziario ex art. 2409 c.c., in Riv. dir impr., 2001, 258 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società’, Torino, UTET, 2002, 426 e nt. 2; dopo la riforma del diritto societario GALGANO, Il nuovo di­ ritto societario, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, CE­ DAM, 2003, 409 ss.: NICCOLINI, sub Art. 2487, in Società di capitali, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 1749 ss.; FIMMANO-TRAVERSA, Scioglimento, liquidazione ed estinzione delle società di capitali alla luce della riforma, in Riv. not., 2004, I, 340; M-J NETTI, sub Art. 2409, in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso e Montalenti, Bologna, Zanichelli, 2004, 935 ss. In giurisprudenza v. da ultimo per la tesi positiva Trib. Bergamo, 7 febbraio 2001, in Dir. prat. delle soc., 2002, n. 1, 73; Trib. Bergamo, 3 aprile 2001, in Società, 2001, 1224 ss.; Trib. Trapani, 10 agosto 2001, lll Società, 2002, 868 ss.; Trib. Trani, 30 ottobre 2001, in Società, 2002, 354 ss.; Trib. Milano, 22 marzo 2002, est. Riva Crugnola, ined.; Trib. Firenze, 18 febbraio 2003, in Nuova gi.ur. civ. comm., 2004, I, 10 ss.; Trib. Lecco, 11 novembre 2003, in Giur. milanese, 2004, 39 ss.; si noti che anche la Suprema Corte (Cass., 18 aprile 2000, n. 5001, in Riv. giur. sarda, 2002, 311, con nota di NIEDDU ARRICA) ha indirettamente affermato l’applicabilità del giudizio ex art. 2409 c.c. alla società in liquidazione; vedi per le peculiarità del caso deciso dalla pronuncia della Cassazione NICCOLINI, op. ult. cit., 1750, nt. 43. Per la tesi dell’inammissibilità o improcedibilità del controllo giudiziario allorché la società sia posta in stato di liquidazione v. di recente, oltre all’App. Venezia, 17 novembre 1998, (nt. 1); Trib. Ragusa, 26 ottobre 2001, in questa Rivista, 2002, II, 632 ss., con nota di D. MONACI, provvedimento menzionato anche nella motivazione della sentenza in commento.
(15) In questo senso Trib. Pavia, 28 aprile 2001, in Società, 2001, 1087 ss.: il tribu nale ordinava la prosecuzione dell’ispezione giudiziale della società in liquidazione, deman­ dando all’ispettore la verifica dell’osservanza da parte del liquidatore di una serie di direttive di comportamento.
(16) VITALE, (nt. 13), 434 ss.; A. PATRONI GRIFFI, (nt. 14), 346 ss.; CERA, (nt. 14), 613; Trib. Como, 7 novembre 1997, in Società, 1998, 672 ss.; Cass., 18 aprile 2000, n. 5001, (nt. 14).
(17) Così NICCOLINI, (nt. 5), 148; Io., (nt. 14), 1751. Sui poteri dell’amministratore giudiziario v. anche per riferimenti FERRARIS, Approvazione del bilancio da parte dell’amministratore giudiziario e impugnazione di deliberazione negativa, in questa Rivista, 2004, II, 202 ss. L’affermazione che lo stato di liquidazione rende non più attuali le irregolarità gestionali non poteva automaticamente sostenersi, in particolare, per il caso in esame; come vi­ sto, era stato nominato liquidatore della società ki stesso amministratore unico, ossia il soggetto cui le accertate irregolarità (in particolare, usando la terminologia del precedente art. 2391 c.c., il conflitto di interessi) dovevano essere imputate.
(18)   Cfr. per tutti NICCOLINI, (nt. 5), passim; V. PINT0, (nt. 5), 387 ss.
(19) Per un ampio esame degli interessi sottesi al procedimento della denunzia al Tribunale, con accenti diversi, cfr. BIGIAVI, Ancora sulla nomina, senza richiesta, di un amministratore giudiziario della società per azioni ai sensi dell’art. 2409 c.c., in Riv. dir. civ., 1955, I, 210 ss.; Io., Interesse sociale ed interesse pubblico, in Riv. dir. civ., 1956, I, 712; A. PATRONI GRIFFI, (nt. 14), 295 ss., il quale esclude (v. 336) che la denuncia al Tribunale sia predisposta alla tutela di interessi astratti e generali; ALLEGRI, Denuncia di gravi irregolarità e tutela delle minoranze, in questa Rivista, 1980, II, 756; DOMENICHINI, (nt. 14), 592 ss.; FERRI, Le società2, in Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, UTET, 1985, 794; TEDESCHI, (nt. 13), 201 ss.; NICCOLINI, (nt. 5), 128 ss.; COTIIN0, Le società. Diritto commerciale\ voi. I, tomo 2, Padova, CEDAM, 1999, 461; ancora A. PATRONI GRIFFI, (nt. 2), 151 ss.; S. Rossi, Il controllo giudiziario ai sensi dell’art. 2409 c.c. nelle società di capitali, ediz. provv., Milano, 2002, 10 ss. e 74 ss. In giurisprudenza v. Trib. Chiavaci, 12 giugno 2001, in Riv. dir. comm., 2001, II, 157 ss.; App. Cagliari, sez. dist, Sassari, 13 febbraio 2004, in Società. 2004, 976,
(20) Secondo NAZZICONE, Società per azioni. Amministrazione e controlli, in La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, Milano, Giuffrè, 2003, 313, il pubblico ministero potrd. in ogni caso intervenire facoltativamente anche nei procedimenti relativi a s.p.a. chiuse, in quanto l’art. 30, l” comma, d. lgs. n. 5 del 2003 prevede che egli possa depositare osservazioni scritte; inoltre ai sensi dell’art. 71, 2″ comma, c.p.c., il tribunale può comunque disporre la comunicazione degli atti al pubblico ministero affinché possa intervenire; v. anche ARIETA-DE SANCTIS, Diritto processuale societario, Padova, CEDAM, 2004, 582; D’AMBRos10, La denuncia al tribunale per gravi irregolarità dopo la riforma, in Società, 2004, 448.
Le conclusioni possono ritenersi convincenti, purché venga mantenuto anche nel rigore della nuova norma l’orientamento precedente (Cass., 3 maggio 2000, n. 5504, in Rep. Foro it., 2000, voce Procedimento civile, n. 204; App. Roma, 29 marzo 2002, in Società, 2002, 1392 ss.) secondo cui la partecipazione del pubblico ministero al procedimento ex art. 2409 c.c. deve ritenersi necessaria. La possibilità di deposito di osservazioni scritte da parte del pubblico ministero deve essere infatti coordinata con la previsione dell’art. 25, 2° comma, d. lgs. n. 5 del 2003, che consente l’intervento facoltativo nelle sole ipotesi in cui la partecipazione del pubblico ministero al procedimento risulti necessaria.
(21) Potenzialità di danno che dovrà intendersi, alla luce degli studi relativi agli artt. 2373 e 2391 c.c. vecchia formulazione, come ragionevole pericolo di pregiudizio al valore globale delle azioni, oltre che come danno al patrimonio sociale: cfr. PREITE, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nella società per azioni, in Tratt. delle s.p.a., diretto da Colombo e Portale, Torino, UTET, vol. 3, tomo II, 1993, 132 ss. Sulla valutazione ex post del potenziale pregiudizio v. SCIMEMI, La vendita del voto nelle società per azioni, Milano, Giuffrè, 2003, 131.
Notano BUSSOLETTI, Le nuove norme del codice civile in tema di processo societario, in questa Rivista, 2004, I, 300, e MAINE-m, (nt. 14), 937, che la norma non contempla ora le irregolarità potenzialmente dannose per i singoli soci, oggetto sovente di attenzione nei pro­ cedimenti ex art. 2409 c.c. (ad es.: rifiuto degli amministratori di consentire ai soci l’ispezione dei libri sociali).
(22) Cfr. BUSSOLETTI, Il procedimento ex art. 2409 c.c., in Riv. soc., 2003, 1214, che sottolinea come l’introduzione del requisito del danno quale presupposto per propone la denuncia, e l’eliminazione della legittimazione attiva del pubblico ministero, portino ad escludere che l’interesse tutelato dalla norma possa considerarsi quello generale connesso alla corretta amministrazione della società; nello stesso senso AMBROSINI, L’amministrazione e i controlli nella società per azioni, in La riforma delle società, a cura del medesimo, Torino, Giappichelli, 2003, 84. Gli interessi pubblici al controllo della società rimangono presenti, peraltro, insieme a quelli di tutela dei soci di minoranza e dei creditori (e ora dei titolari di strumenti finanziari), anche nella nuova formulazione dell’art. 2409 c.c. (cfr. ANGELICI, La riforma delle società di capitali, Padova, CEDAM, 2003, 133; D’AMBROSIO, (nt. 20), 448); già nella precedente formulazione, del resto, non era per nulla pacifico che fosse la legittima­ zione del pubblico ministero a testimoniare l’interesse pubblico al rispetto dei principi di corretta amministrazione: v. A. PATRONI GRIFFI, (nt. 2), 155 ss. Sul rapporto tra autotutela ed eterotutela nel procedimento ex art. 2409 c.c. v. anche S. Rossi, (nt. 19), 89 ss. e 259 ss. Si noti che nel frattempo, in seguito agli scandali finanziari verificatisi negli ultimi tempi, non solo si propone di reintrodurre la legittimazione del pubblico ministero alla de­ nunzia anche nelle società chiuse (in senso critico sull’eliminazione della legittimazione del pubblico ministero cfr. ad es. F. DI SABATO, La riforma delle società di capitali, in Riv. dir. impr., 2002, 565; ARIETA-DE SANCTIS, (nt. 20), 582), ma anche di estendere tale potere agli amministratori non operativi o indipendenti: v. BERNARDI, E se gli dessimo il potere di denunciare gli abusi, in CorrierEconomia, 29 marzo 2004, 4. La legittimazione anche degli amministratori alla denuncia ex art. 2409 c.c. è stata riconosciuta da Trib. Chiavari, 12 giugno 2001, (nt. 19); i precedenti che la pronuncia richiama a tal fine (App. Milano, 22 novembre 1989, in Società, 1990, 371; Trib. Venezia, 11 dicembre 1987, in Società, 1988, 284), tuttavia, ammettono la legittimazione degli amministratori in quanto quest’ultimi siano soci qualificati.
(23) V. i riferimenti alla nt. 11. Tale accresciuto rilievo degli interessi dei singoli soci e dei creditori risulta significativamente dall’attribuzione ai singoli soci, ai sindaci e al pu blico ministero del potere di chiedere la revoca dei liquidatori (v. ora art. 2487, ult. comma, c.c.).
(24) A. PATRONI GRIFFI, (nt. 14), 341 ss.; FERRI, (nt. 19), 793; GALLESIO PIUMA, (nt. 12), 200 ss.; CERA, (nt. 14), 615; PATELLI, Procedimento ex art. 2409 e messa in liquida­ zione della società, in Società, 1998, 673 ss.; NICCOLINI, (nt. 14), 1751, sulla base delle norme degli artt. 2488 e 2489 c.c.; di recente in giurisprudenza Trib. Milano, 30 gennaio 1999, in Giur. it., 1999, 1891 ss.; Trib. Milano, 27 gennaio 2000, ivi, 991 ss.; Trib. Trani. 30 ottobre 2001, (nt. 14). Contra Trib. Pisa, 23 maggio 2001, in Società. 2001, 1223 ss.
(25) V. ad es. Trib. Ragusa, 26 ottobre 2001. (nt. 14).
(26)  Tale obiezione poteva essere avanzata anche contro la tesi che ritiene proponibile la denunzia ex art. 2409 c.c. direttamente contro i liquidatori (v. nt. 24).
Per la natura contenziosa del procedimento di revoca ex art. 2487, ult. comma, c.c. (precedente art. 2450 c.c.) C. ALESSI, (nt. 12), 104; Trib. Ragusa, 26 ottobre 2001, (nt. 14). Sulla natura del procedimento ex art. 2409 c.c. (cautelare; di giurisdizione volontaria; a con­ tenuto oggettivo; contenzioso) v. di recente per tutti i riferimenti GHIRGA, n procedimento per irregolarità della gestione sociale, Padova, CEDAM, 1994, 95 ss.; CETRA, Sulla possibilità di anticipare gli effetti del controllo giudiziario ex art. 2409 c.c. attraverso un provvedi­ mento d’urgenza, in questa Rivista, 1998, Il, 559 ss.; PAGNI, Mala gestio degli amministratori e tutela urgente, in ,Riv. dir. comm., 2003, I, 460 ss. Si noti che il Tribunale di Venezia nel decreto in commento, seguendo l’indirizzo prevalente in giurisprudenza, ritiene il procedimento ex art. 2409 c.c. di giurisdizione volontaria e quindi stabilisce la non applicabilità degli artt. 91 e ss. c.p.c._ in materia di spese; v., anche per riferimenti alla tesi opposta, NASCOSI, La condanna alle spese nel procedimento di cui all’art. 2409 c.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 1033 ss.
(27) BIGIAVI, Ancora sulla nomina, (nt. 19), 219 ss., con l’eccezione dell’ipotesi in cui venga presentata una denuncia generica, senza specificazione dei provvedimenti da assumere, nel qual caso il tribunale godrebbe di un’ampia discrezionalità; conforme ‘TEDESCHI, (nt. 13), 219.
(28)   U. BELVISO, Revoca giudiziale del liquidatore di società di persone, in Riv. dir. civ., 1964, II, 486, nt. 48; A. PATRONI GRIFFI, (nt. 14), 345; M.S. SPOLIDORO, Nota senza ti­ tolo, in Foro pad., 1998, I, 427 ss., ove tutti i riferimenti.
(29) SASSANI-TISCINI, Il nuovo processo societario. Prima lettura del d. lgs. n. 5 del 2003, in Giust. civ., 2003, II, 68 ss.; ARIETA-DE SANCTIS, (nt. 20), 508 ss.; DALMOTTO, in AA.VV., Il nuovo processo societario, diretto da Chiarloni, Bologna, Zanichelli, 2004, 1288; A. AMENDOLA, Il procedimento in camera di consiglio. I procedimenti camerali unilaterali, in Riv. dir. impr., 2003, 513 ss.
(30) Cfr. FAZZALARI, Giurisdizione volontaria (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1970, 335 ss.; CERINO-CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, I, 482 ss.; PAJARDI-GALIOTO, I procedimenti camerali, Milano, Giuffrè, 1992, 22 ss.; FERRARA JR,-CORSI, (nt. 14), 557; SAN­ TARCANGELO, La volontaria giurisdizione, Milano, Giuffrè, 2003, voi. I, 17 e 125.
(31) Un cenno in VITALE, (nt. 13), 436; v. anche PATELLI, Controllo giudiziario, liqui­ dazione e proposizione dell’azione di responsabilità, in Società, 1995, 1323 ss.. In giurisprudenza App.. Milano, 1 giugno 1994, in Società, 1995, 523 ss.; Trib. Como, 7 novembre.

L’estinzione delle società di capitali in seguito a iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese

SOMMARIO: 1. La disciplina dell’estinzione della società dopo il decreto legislativo n. 6 del 2003. –  2. La tutela dei creditori prima della iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese: lo strumento dell’opposizione al bilancio finale di liquidazione. – 3. (Segue): ulteriori proposte interpretative e loro dubbia efficacia. – 4. La divisione del patrimonio quale successione inter vivos a titolo universale dei soci nel patrimonio della società. – 5. Rapporti attivi ancora esistenti dopo la cancellazione ed il ruolo dei liquidatori. – 6. (Segue): le sopravvenienze passive, Esclusione di un’ipotesi di pa­trimonio separato. L’azione ex art. 512 e ss. c.c. – 7. L’azione dei creditori sociali nei confronti dei liquidatori quale «strumento di chiusura» della disciplina dell’estinzione,

1. A seguito del d.lgs. n. 6 del 2003 e del nuovo art. 2495, comma 2, c.c., si deve ora ritenere certo che la società (per lo meno di capitali (1)) sia

da considerarsi estinta con l’approvazione del bilancio finale di liquidazione e la successiva iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese (2). Non si può quindi più ritenere, come faceva  la giurisprudenza prevalente nel vigore della precedente norma dell’art. 2456 c.c., che la società continui ad esistere finché tutti i rapporti ad essa facenti capo, siano essi attivi o pas­sivi, sostanziali o processuali, non siano stati completamente definiti(3). Il legislatore, con l’inserimento dell’inciso «ferma restando l’estinzione della società» al comma 2 dell’art. 2495 c.c., ha in sostanza accolto l’indi­rizzo decisamente prevalente in dottrina (4)  secondo il quale la società come

soggetto di diritto deve considerarsi estinta dal momento dell’attuazione della pubblicità nel registro delle imprese, mediante iscrizione del fatto estintivo (la cancellazione della società) (5). Ciò fermo restando che l’estin­zione della società, e le questioni che ne conseguono, non interferiscono con il diverso problema della fine dell’impresa, che può verificarsi anche in un momento anteriore o posteriore alla iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese, in quanto non vi è alcuna correlazione necessa­ria tra l’esistenza del soggetto imprenditore e il fallimento, come testimonia del resto l’art. 11 l.f. (6).

Il momento dell’estinzione della società trova quindi ora una soluzione parallela a quella dell’estinzione delle persone giuridiche del primo libro (v. art. 6, comma 2, d.p.r. 361/2001) (7), a quella prevista nel Progetto di ri­forma della disciplina delle società di persone (8), nonché a quella dell’estin­zione della società negli ordinamenti che sono stati interessati da modifiche legislative recenti a questo proposito (9).

Tale scelta del legislatore di risolvere attraverso l’inciso citato un pro­blema interpretativo, che vedeva schierate la giurisprudenza e la dottrina in posizioni – almeno in prevalenza – diametralmente opposte, ha peraltro lasciato aperte ancora numerose questioni relative alla disciplina applica­ bile al procedimento di estinzione della società.

  1. In primo luogo, il legislatore delegato, in conformità all’art. 9 della legge n. 366 del 2001 (legge delega al Governo per la riforma del diritto societario), ha introdotto tre ipotesi di iscrizione d’ufficio della cancella­ zione nel registro delle imprese, due delle quali si verificano nel caso di mancanza di un’attività liquidativa (10). Tuttavia non ha chiaramente disci­plinato – o lo ha fatto in maniera contraddittoria – il procedimento da osservare in tali casi.

Infatti, da un lato, con riferimento alle società di capitali, il mancato deposito del bilancio in fase di liquidazione (ex art. 2490, comma 1, c.c.) per tre anni consecutivi determina, ai sensi dell’art. 2490, comma 6, c.c., l’obbligo per l’ufficio del registro delle imprese di provvedere alla iscri­zione d’ufficio della cancellazione della società « con gli effetti previsti dal­l’art. 2495 c.c..» (11).
Dall’altro, con riferimento alle società cooperative e agli enti mutuali­ stici in liquidazione ordinaria, il mancato deposito del bilancio d’esercizio da parte dei liquidatori per cinque anni determina, ai sensi dell’art. 2545-octiesdecies, comma 2, c.c., l’obbligo per l’autorità di vigilanza preposta al controllo della liquidazione di pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale un

elenco delle società che non hanno effettuato tale deposito. In quest’ultimo caso, ossia solo nel caso dell’art. 2545-octiesdecies, comma 2, c.c. (12), i cre­ditori e gli altri interessati possono chiedere, entro trenta giorni da tale pub­blicazione, la continuazione della liquidazione con «formale e motivata do­ manda». La società cooperativa può essere quindi cancellata dal conserva­ tore del registro delle imprese solo a seguito della comunicazione da parte dell’autorità di vigilanza della mancata domanda da parte dei creditori e degli altri interessati, e da quel momento (dall’iscrizione della cancella­zione) la società deve considerarsi estinta (13).

La terza ipotesi di cancellazione d’ufficio è stata infine prevista in una norma transitoria, l’art. 223-quater, comma 2: si tratta del caso di iscrizione della società nel registro delle imprese avvenuta senza l’autorizzazione di cui all’art. 2329, numero 3), c.c. L’autorità competente al rilascio di tale autorizzazione può infatti proporre istanza per la «cancellazione della so­cietà dal registro»; tuttavia, nel caso di accoglimento dell’istanza da parte del Tribunale, si applica l’art. 2332 c.c., e quindi la procedura da seguire per il caso di nullità della società. Sembra quindi che la norma si esprima in realtà impropriamente e non regoli direttamente un’ipotesi di estinzione in seguito all’iscrizione della cancellazione, bensì di scioglimento della so­cietà (14), con nomina dei liquidatori da parte del tribunale (art. 2332, comma 4, c.c.) e successiva liquidazione (15).

b) In secondo luogo, il legislatore delegato non ha completamente se­guito l’art. 8, lett. a), della legge delega (n. 366/2001), e non ha provveduto a disciplinare espressamente « il regime… delle sopravvenienze attive e pas­sive» successive alla iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese. Rimane quindi aperto il problema, fortemente discusso dalla dottrina precedente, di quale sia la sorte dei beni e dei rapporti ignoti ai liquidatori o da questi trascurati, nonché la natura  dell’azione  ex  art. 2495 c.c. nei confronti dei soci.

c) In terzo luogo, non è stato previsto – almeno esplicitamente – uno strumento preventivo specifico di tutela dei creditori,  per il caso in cui i liquidatori intendano procedere alla cancellazione e quindi all’estinzione della società, violando il principio secondo il quale l’attivo sociale non può essere ripartito tra i soci prima che siano soddisfatti i creditori so­ciali (16).

2. È bene analizzare preliminarmente quest’ultimo problema, che si prese!lta come il principale nonché il primo da un punto di vista logico.

E noto infatti che alla base dell’orientamento della giurisprudenza, che faceva sopravvivere la società all’iscrizione della cancellazione del registro delle imprese, stava principalmente la considerazione del rischio, per i cre­ditori sociali ritardatari o sopravvenuti, di trovarsi ad agire (ex art. 2456 vecchio, ora art. 2495 c.c.) nei confronti di una pluralità di soci, spesso di difficile reperimento; per di più i creditori sociali avrebbero dovuto an­che subire il concorso dei creditori particolari dei soci stessi, venendo meno, con l’estinzione, il vincolo di destinazione sul patrimonio sociale e quindi il diritto dei creditori sociali ad essere soddisfatti previamente su tale patrimonio (17).

A questo proposito la dottrina, pur mantenendo fermo il proprio con­vincimento relativo al momento dell’estinzione della società (18), aveva tut­tavia proposto diverse soluzioni interpretative per attribuire ai creditori so­ciali uno strumento di intervento nella fase finale della liquidazione, al fine di evitare tali rischi. Poiché l’iscrizione della cancellazione dal registro costituisce un obbligo per i liquidatori, e in caso di loro inerzia per i compo­nenti dell’organo di controllo, una volta terminata la liquidazione con l’ap­provazione del bilancio finale e la ripartizione dell’attivo (art. 2495, comma 1, c.c.) (19), la dottrina menzionata voleva impedire l’effetto estintivo che deriva dall’iscrizione concedendo ai creditori sociali un mezzo per impugnarla. Seppure tali interpretazioni non avessero fatto breccia –   se non in parte, come vedremo – nelle decisioni della giurisprudenza, risulta inte­ressante riconsiderarle alla luce delle nuove norme introdotte dalla riforma del diritto societario.

Una prima tesi (20) suggeriva di riconoscere anche ai creditori sociali il diritto di proporre reclamo avverso il bilancio finale di liquidazione entro tre mesi dall’iscrizione del deposito di tale bilancio presso l’ufficio del regi­stro delle imprese (art. 2492, comma 3, c.c.) (21). Tale interpretazione si fondava principalmente sull’analisi congiunta delle ipotesi della riduzione del capitale di cui all’art. 2445 c.c. e dell’estinzione: come durante socie­tate i creditori possono avvalersi dell’opposizione (art. 2445 c.c.) per impe­dire la liberazione di parti del patrimonio sociale dal vincolo di destina­zione, così anche nella fase dello scioglimento della società si deve attri­buire ai creditori sociali uno strumento di tutela analogo per impedire tale


(1) Sembra peraltro che una norma, quale l’art. 2495 c.c. nuova formulazione, dettata per le società di capitali al fine di risolvere un dubbio interpretativo che precedentemente si poneva per tutte le società registrate, possa ora servire anche per l’interpretazione degli artt. 2312 e 2324 c.c., relativi al momento estintivo rispettivamente delle s.n.c. e delle s.a.s. iscritte nel registro delle imprese; ciò anche se risulta particolarmente discusso se sia possibile utiliz­zare norme dei tipi «superiori» (in questo caso: relative alle società di capitali) per l’interpre­tazione di disposizioni relative ai tipi «inferiori» (società di persone) o per risolvere lacune relative a questi ultimi: v. P. SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974, 321; cfr. però G.B. PORTALE, Profili dei conferimenti in natura nel nuovo diritto italiano delle società di ca­pitali, in Corr. giur., 2003, 1671 e nt. 51, ove ulteriori riferimenti, secondo il quale la tesi ne­gativa nei confronti di tale interpretazione o applicazione analogica non è stata pienamente dimostrata.
L’applicazione alle società di persone registrate di norme dettate in sede di disciplina della liquidazione delle società di capitali era convincimento diffuso già prima della riforma: cfr. ad es. G. NICCOLINI, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, vol. VII, tomo 3, 1997, 685, nt. 5; M. BUSSOLETTI-E. FAZZUTTI, Società in nome collettivo, in D. disc. priv., sez. comm., Torino, Vol. XIV, 1997, 306. Nello stesso senso in Germania le disposizioni sulla liquidazione dell’Aktiengesetz sono ritenute applicabili anche alle altre società: di recente v. T. RIEHM, Gerichtliche Bestellung des Nachtragsliquidators ein Modell fiir alle Handelsgesellschaften, in NZG, 2003, 1055 ss., ove ulteriori riferimenti.
(2) La norma (art. 2495, comma 2, c.c.) ora prevede che «Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere no­tificata presso l’ultima sede della società». La conclusione di cui nel testo è pacifica in tutti i primi commenti al d.lgs. n. 6 del 2003: cfr. L. PARRELLA, Cancellazione della società, in La riforma delle società, Commentario del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Torino, 2003, 305 ss.; G. NICCOLINI, La disciplina dello scioglimento, della liquidazione e dell’estinzione delle società di capitali, in La riforma delle società, a cura di S. Ambrosini, Torino, 2003, 191 ss. (anche in Riv. dir. impr., 2003, 248 e ss.); ID., Art, 2495, in Società di capitali, a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, in corso di pubblicazione, Napoli, 2004, § 3, che si è potuto consultare grazie alla cortesia dell’Autore; A. DIMUNDO, in Gruppi, trasformazione, fusione e scissione, scioglimento e liquidazione, società estere, a cura di G. Lo Cascio, Milano, 2003, 217 ss.; A. SANTUS-G. DE MARCHI, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, in Riv. not., 2003, 599 ss.; F. CORSI, Le nuove società di capitali, Milano, 2003, 279; F. D1 SABATO, Diritto delle società, Milano, 2003, 501.
(3) Anche se non erano mancate, soprattutto nell’ultimo periodo, alcune prese di posi­zione della giurisprudenza in senso contrario alla sopravvivenza della società alla cancellazione dal registro delle imprese: v. Trib. Monza, 12 febbraio 2001, in Giur. comm., 2002, II, 91 ss., e in Società, 2001, 831 ss,; Trib. Vercelli, 5 luglio 2002, in Società, 2003, 221 ss. (con riferi­mento all’art. 2312 c.c.); App. Milano, 29 novembre 2002, in Giur. it., 2003, 1195 ss., e in Società, 2003, 837 ss. L’orientamento assolutamente prevalente in giurisprudenza (v. da ul­timo Cass., 22 novembre 2002, n. 16486, in Guida al dir., 2003, n. 1, 86; Trib. Mantova, 13 febbraio 2003, G,U. Bernardi, inedita; Cass., 24 settembre 2003, n. 14147, in Società, 2003, 1622; Trib. Messina, 25 ottobre 2003, inedita, in www.ipsoa.it.; App. Trieste, 8 gennaio 2004, n. 7, inedita) era stato considerato preferibile, in dottrina, in particolare da parte di G. OPPO, Forma e pubblicità nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1966, I, 163 ss.; G. NICCOLINI (nt. 1), 703 ss., ove tutte le citazioni delle sentenze in argomento, nonché (con riferimento al­ l’art. 2312, secondo comma, c.c.) da M. BUSSOLETII-E. FAZZuTTI (nt. 1), 306.
(4) Non è qui possibile riportare tutti i contributi che, con riferimento al «precedente» art. 2456 c.c. avevano accolto l’orientamento che ora il legislatore ha voluto esplicitare inse­rendo l’inciso ricordato: v. ex multis, per citare due recenti note a sentenza ove riferimenti alla dottrina in argomento, M. SPERANZINI, Recenti sentenze in tema di estinzione dì società: osser­vazioni critiche, in Giur. comm., 2000, II, 285 ss., e A. ZORZI, Cancellazione della società dal registro delle imprese, estinzione della società e tutela dei creditori, ivi, 2002, Il, 91 ss.
(5) A. PAVONE LA ROSA, Il registro delle imprese, in Trattato di diritto commerciale, di­retto da V. Buonocore, Torino, 2001, 35, fa notare che cancellazione in senso proprio si ha solo nell’ipotesi di cui all’art. 2191 c.c., mentre nell’ipotesi di cui al novellato art. 2495 c.c. (e dei «vecchi» artt. 2312 e 2324 c.c.) si tratta propriamente di iscrizione del fatto estintivo della società, cui si applica dunque la procedura di cui all’art. 2189 c.c.: si v. infatti l’art. 2196, comma 2, c.c. (che parla di iscrizione della cessazione dell’impresa commerciale individuale) e l’art. 18, comma 3, del d.p.r. n. 581 del 1995, ossia del regolamento del registro delle im­prese (che parla di iscrizione della cessazione dell’impresa); G. MARASÀ-C. IBBA, Il registro delle imprese, Utet, 1997, 197; G. RAGUSA MAGGIORE, Il registro delle imprese3, in Codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2002, 113. Cfr. anche per tale distinzione, seppure ad alni fini, Trib. Bologna, 2 novembre 2000, in Società, 2001, 997 ss.
Anche alla pubblicità del fatto estintivo della società si applica inoltre l’art. 2448 c.c., relativo alla decorrenza degli effetti della pubblicazione nel registro delle imprese: v. sulla portata di tale norma A. M.GRÌ, Il trasferimento dei crediti nelle scissioni societarie, in Contr. e impr., 2003, 1500 ss.
(6) E tale conclusione sembra da mantenere ferma anche in seguito alla nota Corte cost., 21 luglio 2000, n. 319, pubblicata ad es. in Giur, it., 2000, 1857 ss., che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 10 l.f., nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’impresa collettiva, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra dalla sua cancellazione dal registro delle imprese della società stessa. Tale sentenza è stata infatti giustamente criticata perché sembra far coincidere il momento della ces­sazione dell’impresa con quello della cessazione della società, sovrapponendo la sfera dell’at­tività d’impresa con quella della forma societaria per l’esercizio di tale attività (cfr. G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 2. Diritto dellesocietà5, Torino, 2002, 136; G. RAGUSA MAG­GIORE (nt.’5), 351 ss.; F. BARACHINI, Il fallimento dell’ex-socio dopo le sentenze della Corte Co­stituzionale n. 66/1999 e n. 319/2000, in Riv. dir, comm., 2000, I, 633). Si noti peraltro che nelle successive Corte cost., 7 novembre 2001, n. 361 (ord.), e Corte cost., 22 aprile 2002, n. 131 (ord.), entrambe in Giur. comm., 2002, Il, 563 ss., la Corte Costituzionale ha in so­ stanza accolto tali critiche, dando rilevanza alla cessazione effettiva dell’attività imprendito­riale, e specificando che «… è infatti del tutto coerente con i principi della pubblicità dichiarativa la possibilità per i terzi di provare la non veridicità del fatto iscritto e, dunque, in ipotesi, di dimostrare il compimento di atti di esercizio dell’impresa successivamente all’i­ scrizione della sua cessazione». In applicazione del principio enunciato dalla Corte Costituzio­nale v. Cass., 8 novembre 2002, n. 15677, in Fallimento, 2003, 1258 ss.
In ogni caso deve sottolinearsi che la società, anche se successivamente dichiarata fallita, già non esiste più sul mercato: il fallimento dopo l’iscrizione della cancellazione non è infatti null’altro che il procedimento volto a definire concorsualmente i rapporti obbligatori sorti e non ancora estinti durante il tempo in cui la società ha operato: ASSOCIAZIONE PREITE, Il nuovo diritto delle società, Bologna, 2003, 366.
(7) Ai sensi del quale il Presidente del Tribunale del capoluogo della provincia in cui è registrata la persona giuridica, chiusa la fase di liquidazione, ordina la comunicazione alle pre­fetture di tale notizia affinché dispongano la cancellazione dell’ente dal registro delle persone giuridiche: v. M.V. DE GIORGI, La riforma del procedimento per l’attribuzione della personalità giuridica, in  Nuove leggi civ., 2000, 1342.
(8) Nel Progetto di rifonna della disciplina delle società di persone (c.d. Progetto Ro­velli) è prevista una disposizione (art. 2304) secondo cui dopo la cancellazione della società i creditori sociali possono far valere i loro crediti soltanto nei confronti dei soci: v. M. SANDULLI, Lo scioglimento e la fine della società, in Le disposizioni generali sulle società e le società di persone, Atti del Convegno di Studio di Lecce, 27 e 28 ottobre 2000, a cura di N. Rocco di Torre Padula, Milano, 2001, 145 ss.
(9) In Spagna la Ley de sociedades anònimas all’art. 278, la Ley de sociedades de re­ sponsabilidad limitada all’art. 122 e il Texto Refundido de la Ley de Sociedades Anónimas al­l’art. 278 (norme cui corrisponde l’art. 247 del Reglamento del Registro mercantil) prevedono che l’estinzione si compia con la iscrizione della scrittura pubblica di estinzione della società nel Registro mercantil e con la pubblicazione di tale scrittura nel Boletín Oficial del Registro Mercantil. Si noti che gli autori spagnoli sostengono che la soluzione prescelta dal legislatore (di ancorare l’estinzione della società all’iscrizione della cancellazione) è stata ispirata dal pre­cedente art. 2456 c.c. italiano: v. J. PULGAR EZOUERRA, La cancelación registral de las socieda­des de capital, Madrid, 1998, 56. L’art. 160 del Código das Sociedades Comerciais portoghese prevede che la società si estingua con l’iscrizione nel Registro comercial della chiusura della liquidazione: cfr. R. VENTURA, Dissolução e Liquidação de Sociedades3, Coimbra, 2003, 433 ss.; la Lei das S.A. brasiliana (Lei n. 6.404 del 1976, come modificata dalla Lei n. 10.303 del 2001) all’art. 218 prevede che dalla chiusura della liquidazione il creditore non soddisfatto possa agire contro i soci e i liquidatoti. Pure l’art.237-11 Code comm. francese stabilisce che con la cancellazione dal registro di commercio e l’inserzione della notizia nel Bulletin officiel des annonces civiles et commerciales la società si estingue: la giurisprudenza, peraltro, richiede anche la sostanziale liquidazione di tutti i rapporti: v. P. LE CANNU, Droit des sociétés, Paris, 2002, 319; G. RIPERT-R. ROBLOT, Traité de droit commercial18, sous la direction de M. Ger­main, tome 1, volume 2, 2002, 96. In Germania prevale la Lehre vom Doppeltatbestand (doppia fattispecie) che richiede per l’estinzione la cancellazione dal registro delle imprese e l’assenza di patrimonio (Vermögenslosigkeit): cfr. K. SCHMIDT, Löschung und Beendigung der GmbH, in GmbHR, 1988, 209 ss.; ID., Gesellschaftsrecht4, Köln-Berlin-Bonn-München, 2002, 932 (con riferimento alla AG) e 1203 (con riferimento alla GmbH); I. SAENGER, Die im Han­delsregister gelöschte GmbH im Prozess, in GmbHR, 1994, 306; in giurisprudenza da ultimo in tal senso OLG Koblenz, 1° aprile 1998, in ZIP, 1998, 967 ss. Contra U. HÜFFER, § 273, in Münchener Kommentar zum Aktiengesetz2, München, 2001, Rdnn. 12 ss., 693 ss., secondo il quale l’iscrizione della cancellazione estingue in ogni caso la società di capitali.
(10) L’espressione cancellazione d’ufficio è correntemente utilizzata negli ordinamenti che già conoscono questo istituto: v. ad es. J. PULGAR EZQUERRA (nt. 9), 75 ss., che dedica una parte della monografia a tali aspetti e ove critiche alla c.d. cancellazione giudiziale; ulteriori riferimenti in G. NICCOLINI, Interessi pubblici e interessi privati nella estinzione della società, Milano, 1990, 373 ss.; F. SACRISTÁN BERGIA, La extincióm por disolución de la sociedad de re­ sponsabilidad limitada, Madrid, 2003, 251 ss.
(11) In particolare, come si vedrà, l’effetto rilevante di tale rinvio è la responsabilità dei liquidatori ex art. 2495, comma 2, c.c.: v. paragrafo 7. Per un approfondito commento all’art. 2490, comma 6, c.c., che sembra risentire di una concezione sanzionatoria (nei riguardi della società e quindi dei suoi soci) della cancellazione v. G. NICCOLINI, Ari. 2490, in Società di ca­pitali, a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, in corso di pubblicazione, Napoli, 2004, § 5, che si è potuto consultare grazie alla cortesia dell’Autore.
(12) Con una disposizione che probabilmente si può ritenere, peraltro, analogicamente applicabile anche all’ipotesi di cui all’art. art. 2490, comma 6, c.c.: v. nel testo.
(13) Rileva la mancanza di coordinamento tra le due disposizioni (art. 2490, comma 6, c.c. e art. 2545-octiesdecies, comma 2, c.c.) A. PACIELLO, Bilanci in fase di liquidazione, in La riforma delle società, Commentario del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Giappichelli, 289. Osserva ulteriormente G. NICCOLINI, La disciplina (nt. 2), 192, che la norma dell’art. 2490, comma 6, c.c. non ha neppure predisposto una specifica forma di in­terpello preventivo della società; tuttavia, prosegue l’Autore, la lacuna potrebbe colmarsi applicando gli artt. 2190 c.c. e 16 del regolamento del registro delle imprese (d.p.r. n. 581 del 1995), che prevedono una preliminare informazione del soggetto destinatario del provvedi­mento di cancellazione, oltre che una reclamabilità di tale provvedimento; ID. (nt. 11), § 5, ove l’Autore nota ulteriormente che la cancellazione di una società cooperativa produce gli stessi effetti (art. 2495 c.c.) della cancellazione di una società di capitali, in virtù del generale richiamo contenuto all’art. 2519 c.c. Secondo G. MARASÀ, Il ruolo della pubblicità nella ri­forma delle società di capitali e delle cooperative, in Riv. dir. impr., 2003, 11, invece, la disci­plina dell’art. 2545-octiesdecies c.c. è una disciplina particolare per le cooperative, destinata ad aggiungersi a quella generale dell’art. 2490, ult. comma, c.c. che rimane comunque applicabile.
(14) Sul collegamento tra art. 2332 c.c. e 223-quater, comma 2, disp. att. cfr. anche G. PALMIERI, La nuova disciplina della nullità della società per azioni,in questa Rivista, 2003, 854.
(15) Inoltre l’art. 223-quater, comma 2, disp. att. e transit., prevede che il tribunale, prima di procedere alla cancellazione, debba sentire la società. Un altro indice normativo, dunque, per accogliere la tesi ricordata alla nt. 13, secondo la quale è necessaria una forma di in­terpello preventivo della società prima dell’iscrizione d’ufficio della cancellazione.
(16) Si noti che l’art. 2280 c.c., dettato in tema di società di persone, che vieta la ripar­tizione tra i soci dei beni sociali finché non siano pagati i creditori, non risulta più espressa­mente richiamato nella disciplina delle società di capitali (come in precedenza invece disponeva l’art. 2452, comma 1, c.c.). Tuttavia tale principio deve ritenersi comunque appli­cabile, in quanto l’art. 2491, comma 2, c.c., pennette la ripartizione di acconti sul risultato della liquidazione, ma solo se tale ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee alla integrale e tempestiva soddisfazione dei creditori sociali. Sulla portata di tale norma v. per tutti G. NICCOLINI, La disciplina (nt. 2), 182 ss.; G. FERRI jr, La gestione di società in liquida­zione, in Riv. dir. comm., 2003, I, 422.
(17) Cfr. per le ragioni alla base dell’orientamento giurisprudenziale R. COSTI, Estin­zione delle società, esigenze del processo economico e politica dei giudici, in Giur. comm., 1974, II, 401 ss.; G. NICCOLINI (nt. 1), 704 ss.; M. SPERANZIN (nt. 4), 289 ss.; Trib. Monza, 12 febbraio 2001, cit.
(18) Coincidente già nel vigore del precedente art. 2456 c.c., come si ricordava, con l’i­scrizione della cancellazione dal registro delle imprese.
(19) Tale obbligo di richiedere l’iscrizione della cancellazione sussiste in quanto altri­menti i creditori non potrebbero far valere le azioni di cui agli artt. 2495, comma 2, c.c.: v. in Spagna F. SACRISTÁN BERGIA (nt. 10), 267. In sostanza i creditori sociali, in mancanza dell’i­scrizione della cancellazione, potrebbero agire nei confronti della società (priva, peraltro, di attivo), nonché dei liquidatori, ma ai sensi degli artt. 2489, comma 2, e 2491, comma 3, c.c., e non dell’art. 2495, comma 2, c.c. (v, per la differenza il paragrafo 7).
(20) Avanzata da P. GRECO, Le società nel sistema legislativo italiano. Lineamenti generali, Torino, 1959, 446, nt. 117, e sviluppata soprattutto da R COSTI, Le sopravvenienze pas­sive dopo la liquidazione delle società per azioni, in Riv. dir. civ., 1964, I, 280 ss.
(21) Si noti che è stata recentemente sollevata ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost. la que­stione di legittimità costituzionale del termine dei tre mesi – dall’iscrizione del deposito presso l’ufficio del registro delle imprese – concesso ai soci per proporre reclamo avverso il bilancio finale di liquidazione, ma la Corte Suprema (Cass., 19 aprile 2002, n. 5716, in Giur. it., 2002, 1643 ss.) ha ritenuto tale questione manifestamente infondata.

Donazione e negozi traslativi del diritto d’autore

Cassazione Civile, sez. I, 16 aprile 2002, n. 5461
Pres. Olla – Rel. Berruti – PM Velardi M. (conf.) – Vacondia Marzotto c. Carapezza Guttuso ed altra
Beni – Immateriali – Diritti di autore (proprietà intellettuale) – Diritti di utilizzazione economica (contenuto del diritto)

Cessione o trasferimento – Circolazione dei diritti di utilizzazione economica – Art. 107 legge dir. autore –
Riferimento a modi e forme consentiti dalla legge – Portata – Regole comuni dei negozi, tipici o atipici, utilizzabili
dall’autonomia privata – Applicabilità – Conseguenze – Possibilità di realizzare la causa tipica di liberalità senza il rispetto
delle forme della donazione – Esclusione.

L’art. 107 della legge 22 aprile 1941, n. 633, stabilendo che i diritti di utilizzazione spettanti agli autori
delle opere dell’ingegno, nonché i diritti connessi aventi carattere patrimoniale possono essere acquistati,
alienati o trasmessi in tutti i modi e forme consentiti dalla legge, disciplina la circolazione, anche separata,
delle facoltà derivanti dal diritto d’autore secondo le regole ordinarie dei contratti, cosicché detta
circolazione, fatti salvi i limiti di inalienabilità stabiliti dalla normativa speciale, si realizza in base ai negozi,
tipici o atipici, volta a volta utilizzabili dall’autonomia privata; è pertanto da escludere che la citata
norma consenta alle parti di perseguire la causa tipica di liberalità, consistente nel diretto arricchimento
dell’oblato senza alcun corrispettivo, con un negozio sottratto agli obblighi di forma della donazione.

Svolgimento del processo
Fabio Carapezza Guttuso, erede di Renato Guttuso, conveniva davanti al Tribunale di Milano Marta Vacondio Marzotto e la s.p.a. Standa lamentando che la società predetta aveva commercializzato prodotti riproducenti opera del maestro Renato Guttuso. Tale sfruttamento era stato abusivamente concesso, a dire dell’attore, dalla convenuta Vacondio Marzotto, sulla base di una scrittura redatta dal defunto autore, in data 23 settembre 1986. Chiedeva che il tribunale accertasse la natura di donazione della predetta scrittura e la dichiarazione pertanto nulla per mancanza della forma prevista dalla legge per la validità di tale contratto. Chiedeva quindi il risarcimento dei danni subiti ed i provvedimenti necessari ad impedire la continuazione del comportamento illecito denunciato. Resistevano i convenuti. Tra l’altro la Vacondio Marzotto rilevava la natura di donazione indiretta nell’atto contenuto nella predetta scrittura e dunque l’inapplicabilità alla specie delle regole che stabiliscono la forma del contratto di donazione. A suo avviso la scrittura conteneva un negozio tipico, ancorché utilizzato secondo lo schema della donazione indiretta, ai sensi dell’art. 107 della legge sul diritto di Autore. Il tribunale accoglieva la domanda del Carapezza quanto alla dichiarazione di nullità del negozio in questione, che definiva donazione. Respingeva la domanda di risarcimento dei danni. La Corte d’Appello respingeva l’impugnazione avanzata dalla Marzotto, mentre la Standa rimaneva contumace. Per ciò che ancora rileva, il secondo giudice riteneva che il sistema di cui agli artt. 2581 Codice civile e 107 della legge n. 633 del 1941 (legge Autore) non preveda un contratto tipico di cessione dei singoli diritti facenti parte della posizione protetta dell’autore, ed in particolare non conosca altri contratti tipici oltre quelli di edizione e di rappresentazione – esecuzione. Pertanto ribadiva la natura di donazione rivestita dalla cessione espressa nella scrittura del 1986 e la sua nullità per mancanza della forma solenne stabilita dalla legge.
Contro questa sentenza ricorre per Cassazione con due motivi Marta Vacondio Marzotto. Resiste e spiega ricorso incidentale condizionato Fabio Carapezza Guttuso. Deposita un controricorso ed un ricorso incidentale anche la s.p.a. Euridea, già Standa s.p.a. Tutte le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1) I ricorsi vanno preliminarmente riuniti.
2) Va rilevato ancora preliminarmente che Euridea non ha interesse a proporre ricorso per Cassazione avverso la sentenza della corte di merito che ha confermato la prima decisione. Questa infatti respinse la domanda di risarcimento dei danni avanzata avverso la Standa e la statuizione non è mai stata impugnata, né dal Carapezza né dalla stessa società. Il suo ricorso incidentale è dunque inammissibile.
3) Con il primo motivo del suo ricorso Marta Vacondio Marzotto lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2581 Codice civile, e 107 legge n. 633 del 1941 (l.a.) nonché dei principi e delle norme che disciplinano i negozi e le donazioni indirette. Sostiene che la sentenza impugnata ha male inteso e male interpretato la scrittura del 1986 per effetto di un errore giuridico consistito nell’avere a priori escluso la configurabilità di una negoziazione tipica avente ad oggetto la alienazione o la circolazione di uno dei diritti di sfruttamento spettanti all’autore dell’opera dell’ingegno. Afferma che invece la norma dell’art. 107 l.a. chiarisce la possibilità di dar vita a negoziazioni aventi un tale oggetto specifico, con il solo obbligo del rispetto della forma scritta. Afferma che in conseguenza di tale equivoco la Corte di merito non si è avveduta che sottostante alla scrittura vi era una concessione da parte di Renato Guttuso alla Marzotto Vacondio del diritto a divulgare l’opera dell’ingegno, negozio avente causa tipica distinta da quella della donazione, ma con essa legittimamente combinabile nello schema di un negozio indiretto, sottratto agli obblighi di forma della donazione.
3a) Con il secondo connesso motivo che va esaminato insieme al primo, la ricorrente lamenta la motivazione insufficiente e contraddittoria sui relativi punti decisivi della controversia e ribadisce l’errore di escludere la tipicità dei negozi risalenti all’art. 107 l.a.
4) Osserva il collegio che la prima censura sfugge alla sanzione della inammissibilità perché allega la pretesa cattiva interpretazione dell’atto negoziale del 1986 da parte della Corte di merito quale conseguenza della negazione, corrispondente a sua volta ad un errore di diritto, di un negozio tipico risalente all’art. 107 l.a. Ciò premesso va rilevato che la nostra legge, dalla normativa codicistica a quella della legge speciale, comprende nel diritto esclusivo spettante all’autore tanto le facoltà di utilizzazione dell’opera quanto quelle, diverse, sull’opera, previste a tutela della personalità dell’autore stesso. L’art. 2577 Codice civile stabilisce anzitutto il diritto dell’autore di pubblicare l’opera, quindi di utilizzarla economicamente in ogni forma e modo, nei limiti e per gli effetti fissati dalla legge. Quindi la norma dell’art. 12 della legge speciale chiarisce, dopo dell’affermazione fondamentale della esclusività del diritto di pubblicare l’opera, che l’autore per l’appunto ha diritto di utilizzare economicamente la stessa in ogni modo e forma, originale e derivata, in particolare «con l’esercizio dei diritti esclusivi indicati negli articoli seguenti» (incluso tra questi l’art. 107, ndr.). I diritti stessi sono esplicitamente indicati come modalità del diritto esclusivo di utilizzazione economica, che pertanto include ogni possibilità di trarre utilità dall’opera dell’ingegno. Ancora la legge speciale all’art. 19, stabilisce che i diritti esclusivi di cui si tratta sono tra loro indipendenti, e che l’esercizio di ciascuno di essi non esclude quello, sempre esclusivo, di ciascuno degli altri, e conclude che i diritti hanno sempre per oggetto l’opera nel suo insieme ed in ciascuna delle sue parti.
Consegue che la norma dell’art. 107, letta in coerenza con tale assetto giuridico, non fa altro, stabilendo che i diritti di utilizzazione possono essere acquistati, alienati, e trasmessi in tutti i modi consentiti dalla legge, che disciplinare richiamando le regole ordinarie dei contratti la circolazione anche separata di tali facoltà di autore, (cfr. Cass. 1951 del 1966; 3004 del 1973).
Da tale norma pertanto non si può trarre, come pretende la ricorrente, a proposito dei negozi in questione la conclusione della loro diversità di natura giuridica rispetto a quelli di alienazione e trasmissione dei diritti in genere. Il problema non è infatti la tipicità di tali contratti, erroneamente esclusa dalla sentenza impugnata senza che tale errore di inquadramento delle fattispecie abbia influito sulla statuizione, cosicché essa necessita solo di essere integrata e corretta nel senso che si sta precisando. Problema è, piuttosto, se essi abbiano, come pretende la ricorrente, in virtù di tale tipicità discendente dalla previsione legale, ciascuno una propria distinta causa tipica che pertanto li differenzia reciprocamente sotto il profilo funzionale. A tale quesito la Corte deve rispondere negativamente. La legge non disciplina la trasmissione di tali diritti come rispondente ciascuna a funzioni economico pratiche a se stanti, ma invece menzionando i modi e le forme consentite richiama le ordinarie cause cui risalgono i negozi che realizzano la circolazione dei diritti. Cosicché la circolazione di una o più facoltà in questione, fatti salvi i limiti di inalienabilità stabiliti dalla normativa speciale, avviene secondo le regole dei contratti e dei negozi, tipici o atipici, volta per volta utilizzati dalla autonomia privata. Pertanto, pare il caso di precisare, alla causa di liberalità si contrappone quella di onerosità, non certo, comparando concetti giuridici disomogenei, lo scopo
pratico di cedere una sola delle facoltà in questione, rispetto a quello corrispondente alla cessione plurima.
5) La conclusione espressa risulta confermata dalla logica del negozio indiretto, così come la giurisprudenza, sulla scorta di una illustre dottrina ha da tempo chiarito. La differenza tra donazioni dirette e donazioni indirette non consistite nella diversità dell’effetto pratico che da esse deriva, ma piuttosto nel mezzo con il quale viene attuato il fine di liberalità. Questo per le prime è il contratto di donazione, per la seconda è un atto che pur essendo rivolto, secondo lo scopo pratico delle parti, ad attuare il medesimo fine, lo realizza obliterando la causa tipica del negozio (cfr. Cass. 1465 del 1969). Nel caso in esame si è verificato l’esatto contrario, perché la scrittura del 1986, nella ricostruzione che ne ha fatto il giudice del merito, mira a raggiungere direttamente la funzione di arricchire senza corrispettivo taluno, senza sovrapporre ad essa lo scopo pratico realizzato. Muovendo da premesse giuridiche che il collegio condivide la corte di merito ha interpretato il contratto dando conto delle sue conclusioni con motivazione che non fa emergere alcun vizio rilevante in questa sede.
I due motivi sono infondati.
6) La trattazione di ricorso incidentale condizionato del Carapezza Guttuso risulta assorbita dalla affermata infondatezza del ricorso principale.
7) Deve dunque essere dichiarato inammissibile il ricorso della s.p.a. Euridea. Il ricorso principale deve essere rigettato. Deve essere dichiarato assorbito quello del Carapezza. La complessità delle questioni e la predetta correzione della sentenza impugnata giustificano la compensazione delle spese tra tutte le parti.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale dichiara assorbito quello del Carapezza Guttuso. Dichiara assorbito il ricorso della s.p.a. Euridea. Compensa le spese del giudizio tra tutte le parti.

IL COMMENTO
di Cristina Bellomunno e Marco Speranzin (*)

Il caso
Con la pronuncia in epigrafe (1) la Suprema Corte da un lato esamina il criterio distintivo tra donazione diretta e donazione indiretta – già oggetto di approfonditi studi da parte della dottrina (2) e di pronunce della giurisprudenza (3), e che non sarà oggetto della presente nota -, dall’altro precisa la portata dell’art. 107 della legge 22 aprile 1941, n. 633 in relazione ai negozi che consentono la circolazione del diritto d’autore. La vicenda in esame ha visto contrapposti Fabio Carapezza Guttuso, erede di Renato Guttuso, la signora Marta Vacondio Marzotto e la Standa s.p.a. Nel 1986 Renato Guttuso aveva ceduto alla signora Marzotto, tramite scrittura privata, il diritto di riprodurre su supporti di ogni genere le proprie opere. Sulla base di tale scrittura la signora Marzotto aveva quindi concesso alla Standa s.p.a. il diritto di riprodurre una di queste opere su vari oggetti e quello di commercializzare i prodotti che ne recavano la riproduzione. Contro tale situazione insorgeva il figlio ed erede di Renato Guttuso, sostenendo l’abusiva concessione alla Standa del diritto di commercializzare i prodotti recanti la riproduzione dell’opera paterna, e ciò in quanto la donazione effettuata dal padre a favore della signora Marzotto era nulla, per mancanza della necessaria forma solenne prevista dal Codice civile ai fini della validità del contratto (art. 782 Codice civile) (4); di conseguenza, non poteva dirsi legittimamente trasferito il diritto alla Standa. I convenuti sostenevano invece la presunta natura di donazione indiretta della scrittura privata, con la conseguente inapplicabilità delle forme richieste per la donazione, e la validità e l’efficacia, dunque, del duplice trasferimento. Il Tribunale, accogliendo la richiesta dell’attore e ritenendo la scrittura una donazione diretta, ne dichiarava la nullità per mancanza della forma solenne. La signora Marzotto proponeva appello ma la sua domanda veniva respinta, per lo stesso motivo, anche in quella sede. La signora Marzotto depositava, quindi, ricorso in Cassazione sostenendo che la scrittura del 1986 era stata erroneamente interpretata a causa di un errore di diritto. Secondo la ricorrente il giudice di merito aveva infatti escluso a priori la configurabilità di un negozio tipico avente ad oggetto la circolazione di una delle facoltà di sfruttamento spettanti all’autore: l’art. 107 l.a. conferirebbe, infatti, la possibilità di dar vita a negoziazioni tipiche aventi ad oggetto uno dei diritti di sfruttamento dell’opera dell’ingegno, con il solo obbligo del rispetto ai fini della prova della forma scritta, sia essa atto pubblico o scrittura privata (art. 110 l.a.). Nella ricostruzione della ricorrente, dunque, la scrittura del 1986 contenente la concessione a proprio favore del diritto di riprodurre l’opera dell’ingegno non era una donazione diretta, ma un negozio avente causa tipica, distinta da quella della donazione, secondo lo schema del negozio indiretto. Di conseguenza, per la validità della scrittura non era richiesta la forma solenne necessaria per la donazione, essendo invece sufficiente la forma scritta (5).
La Cassazione rigetta il ricorso.
Premettono i Giudici che le norme in materia di diritto d’autore, sia quelle contenute nel Codice civile che quelle contenute nella legge speciale del 1941, attribuiscono all’autore il diritto di disporre economicamente dell’opera traendone ogni utilità possibile, ai sensi degli artt. 13 e ss. l.a.
L’art. 107 l.a. si limita ad esplicitare il principio della trasmissibilità (inter vivos e mortis causa) dei diritti patrimoniali d’autore, senza prevedere tuttavia regole particolari per il trasferimento dei diritti medesimi, che possono così circolare secondo le regole ordinarie che disciplinano i vari contratti di volta in volta utilizzati dall’autonomia privata. Ciò in quanto i negozi di trasmissione dei diritti d’autore non sono, in virtù di tale oggetto, tipi contrattuali diversi, né hanno una causa diversa che li differenzia sotto il profilo funzionale rispetto a quelli che realizzano la circolazione dei diritti in genere.
Ciò premesso, la Cassazione non censura dunque la qualificazione della scrittura privata del 1986 come donazione diretta e non indiretta (6): sulla base della ricostruzione del fatto effettuata dai giudici di merito la funzione della scrittura era stata individuata, infatti, nell’arricchimento della controparte senza alcun corrispettivo, senza peraltro che a tale negozio fosse sovrapposto un ulteriore scopo pratico (7).
Avendo qualificato la scrittura del 1986 come donazione diretta, la Cassazione ha ritenuto, inevitabilmente, che essa fosse invalida per mancanza del rispetto della forma solenne prevista dall’art. 782 Codice civile, non essendo sufficiente la sola forma scritta a salvarla dalla declaratoria di nullità (8). Se, invece, accogliendo la tesi del ricorrente la scrittura in questione fosse stata qualificata come donazione indiretta, non sarebbe stata necessaria neppure la forma scritta, in quanto l’art. 110 l.a. infatti richiede la forma scritta ad probationem e non anche per la validità dell’atto (9).

La circolazione giuridica del diritto d’autore
Il profilo di rilevanza della sentenza che qui viene preso in esame concerne, come accennato, l’esame del diritto d’autore nella «circolazione giuridica» (10). Tale diritto risulta da un lato peculiare, infatti, in ragione del suo contenuto: esso si compone di una pluralità di facoltà o poteri (v. artt. 12 ss. l.a.) (11), tra loro indipendenti (art. 19 l.a.), che l’autore può esercitare separatamente (12). Ne deriva, quindi, la possibilità di trasferire uno solo di tali poteri o facoltà, mentre gli altri rimangono in capo


Note:
(*) Il primo paragrafo della presente nota è stato curato da Cristina Bellomunno; i successivi da Marco Speranzin.
(1) Pubblicata anche in Giur. it., 2002, 1644 ss., con nota di A. Burzio, Brevi note sul trasferimento dei diritti patrimoniali d’autore mediante donazione; in Foro it., 2002, I, 1, cc. 3144 ss.; in Dir. aut., 2002, 319 ss.
(2) Si v., senza pretesa di completezza, U. Carnevali, voce Liberalità (atti di), in Enc. dir., Milano, 1974, 218 ss.; C. Manzini, Il contratto gratuito atipico, in Contr. e impresa,1986, 909 ss.; C. Ebene Cobelli, Donazioni, in Riv. dir. civ., 1987, II, 209 ss.; A. Checchini, voce Liberalità (atti di), in Enc. Giur. Treccani, XXIII, Roma, 1991; E. Emiliozzi, La donazione indiretta, in Giust. civ., 1994, II, 423 ss.; M. Di Paolo, Negozio indiretto, voce del Dig. discipl. privat., Sez. civ., Torino, 1995, 127; U. Carnevali, Le donazioni, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, Torino, 1997, 498 ss.; A. Palazzo, Atti gratuiti e donazioni, in Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, 2000, 347 ss.; Id., Le donazioni indirette, in La donazione, Trattato, diretto da G. Bonilini, Torino, 2001, 52 ss.; A. Bortoluzzi, Novità fiscali e oneri formali della donazione diretta e indiretta, in Vita not., 2001, 492 ss.; Valenza, La donazione indiretta tra diritto civile e diritto tributario, in Nuova giur. civ. comm., 2001, II, 179; L. Gatt, La liberalità, Torino, 2002, I, 31 ss.
(3) Cass. 15 novembre 1997, n. 11327, in Contratti, 1998, 242 ss., con nota di G. F. Basini e anche in Foro it., 1999, I, c. 994; Cass. 29 maggio 1998, n. 5310, in Rep. Foro it., voce Donazione, 1998; Cass. 7 dicembre 1989, n. 5410, in Giur. it., 1990, I, cc. 1590 ss.
(4) Com’è noto la donazione è un contratto caratterizzato: a) dal trasferimento di un bene dal patrimonio del donante – che si impoverisce – a quello del donatario – che si arricchisce, ovvero dall’assunzione di un’obbligazione da parte del primo nei confronti del secondo; b) dall’animus donandi, ossia dallo spirito di liberalità che si identifica nella volontà di conferire ad altri un vantaggio patrimoniale, cui non si è obbligati, e che determina un depauperamento del proprio patrimonio. Solo in presenza di entrambi questi elementi si può parlare di donazione: infatti, ove manchi l’arricchimento del donatario a spese del donante si avranno solitamente altri contratti, caratterizzati dalla gratuità (ad esempio, un mandato gratuito o un mutuo gratuito); ove, invece, vi sia solo l’arricchimento altrui e il depauperamento del patrimonio del soggetto disponente e manchi l’animus donandi si avrà, invece, una mera liberalità, non qualificabile come donazione.
(5) Quando lo spostamento della ricchezza giustificato dall’intento liberale è raggiunto tramite un unico negozio si parla di donazione diretta; quando invece ciò avviene attraverso la combinazione di una pluralità di negozi, aventi causa tipica diversa ed il cui effetto tipico non è l’arricchimento, si parla di donazione indiretta (si pensi, per esempio, all’acquisto di un immobile da parte del figlio ma con il denaro del padre). Solo la donazione diretta deve essere fatta – a tutela del donante – per atto pubblico a pena di nullità (art. 782 Codice civile) e ciò anche quando si tratti di universalità di beni (art. 771, secondo comma) o di beni mobili (art. 782, primo comma). La forma dell’atto pubblico non è invece necessaria per la donazione indiretta essendo sufficiente quella richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta; ciò perché «l’arricchimento non è l’effetto tipico del negozio che le parti adottano per realizzarlo» (Cass. 10 febbraio 1997, n. 1214, in Foro it., 1997, I, c. 743).
(6) La donazione indiretta, dunque, presenta i medesimi elementi caratterizzanti la donazione diretta (v. nota precedente), ma da essa si distingue non in relazione al motivo, né in relazione all’effetto pratico che da essa deriva – come nella ricostruzione della ricorrente -, quanto piuttosto nel mezzo con cui viene attuato il fine di liberalità.
(7) Anche la donazione indiretta deve essere peraltro distinta, come la donazione diretta, dal negozio a titolo gratuito, perché è solo nella donazione (diretta e indiretta) che vi è lo spirito di liberalità, ed è solo nella donazione (diretta e indiretta) che si registra l’arricchimento del patrimonio altrui e il depauperamento di quello del donante: l’«arricchimento » di cui all’art. 769 Codice civile è infatti qualcosa di ulteriore rispetto al mero risparmio di spesa di cui può godere, ad esempio, il mutuatario che risparmia l’interesse o il mandante che risparmia il corrispettivo (v. tuttavia anche l’art. 793 Codice civile). Sulla differenza tra donazione e atto gratuito cfr., ex multis, F. Caringella, Alla ricerca della causa nei contratti gratuiti atipici, in Foro it., 1993, I, cc. 1511 ss.; A. Gianola, Atto gratuito, atto liberale. Ai limiti della donazione, Milano, 2002, passim; F. Rolfi, Sulla causa dei contratti atipici a titolo gratuito, in Corr. giur., 2003, 52.
Si noti che, secondo parte della giurisprudenza, quando l’atto è gratuito l’animus donandi si presume iuris tantum: Cass. 19 marzo 1998, n. 2912, in Giur. it., 1998, 2019, secondo la quale «dovendosi presumere l’esistenza dell’animus donandi quando manchi qualsiasi controprestazione al trasferimento di un diritto, il contratto deve essere qualificato come donazione e rivestire, a pena di nullità, la forma ad substantiam». Contra, peraltro, Cass. 11 marzo 1996, n. 2001, in Foro it., 1996, I, c. 1222, secondo cui «l’assenza di corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito, non basta invece ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all’incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elementi di carattere obiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l’obbligazione».
(8) Cass. 10 aprile 1999, n. 3499, in Giur. it., 1999, 2017; Cass. 10 febbraio 1997, n. 1214, in Foro it., 1997, I, c. 743.
(9) V. peraltro infra, alla fine del presente commento, quanto si dirà in tema di possibile conversione della donazione nulla ai sensi dell’art. 1424 Codice civile.
(10) Questo è il titolo atto a comprendere, secondo P. Greco – P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, Torino, 1974, 267 ss., «ogni specie di atti o rapporti giuridici in base ai quali i poteri che nascono a titolo originario in capo all’autore per il solo fatto della creazione si trovano, in virtù di una qualsiasi causa legittima, attribuiti a terze persone, in esclusività o no».
(11) Sulla configurazione quali facoltà, poteri o diritti soggettivi delle singole prerogative dell’autore v. P. Greco, Saggio sulle concezioni del diritto d’autore, in Riv. dir. civ., 1964, I, 541, n. 6.
(12) Sul c.d. principio di indipendenza delle facoltà di utilizzazione v. T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, 804; P. Auteri, Contratti traslativi del diritto d’autore e principio di indipendenza delle facoltà di utilizzazione, in Riv. dir. ind., 1963, II, 123 ss.

Le clausole relative all’oggetto “indiretto” (il patrimonio sociale) garanzie sintetiche e garanzie analitiche

SEZIONE I

LE CLAUSOLE RELATIVE ALL’OGGETTO INDIRETTO IN GENERALE

SOMMARIO: 1. Le clausole patrimoniali-reddituali e la loro funzione – 2. La distinzione delle clausole dal punto di vista della loro formulazione: clausole di rappresentazione e clauso­le di garanzia – 3. La qualificazione delle clausole e conseguenze in tema di disciplina – 4. (Segue): ulteriori effetti dal punto di vista del contratto – 5. Le garanzie prestate in occa­sione dell’aumento del capitale sociale

1. Le clausole patrimoniali-reddituali e la loro funzione
Nozione:
Il corpo centrale del contratto di acquisizione è normalmente costituito dalle clausole patrimoniali-reddituali, ossia le pattuizioni (spesso deno­minate anche, con la terminologia degli ordinamenti da cui derivano, e con un vero e proprio legal transplant, quali business warranties1) con cui il compratore richiede che il venditore rappresenti una determi­nata situazione del patrimonio  della società oggetto dell’acquisizio­ne, e garantisca determinate caratteristiche di tale patrimonio, che variano a seconda del tipo di società e dell’attività da questa svolta2. L’ac­quirente ben difficilmente riesce ad essere, al momento della sottoscri­zione del contratto, dettagliatamente informato circa il reale oggetto del­ l’acquisizione, in particolare in considerazione della complessità del bene compravenduto (v. in merito alla due diligence i Capitoli IV e V); ri­chiede, pertanto, di ricevere una determinata protezione contrattuale in merito allo stato del patrimonio sociale risultante dalla gestione svolta (direttamente o indirettamente) dall’alienante, e, a volte, in merito alle prospettive reddituali dell’impresa.

Funzione:
Le clausole in esame hanno la fondamentale funzione di tutelare l’acqui­rente in considerazione dell’indirizzo, sicuramente prevalente in dottrina e in giurisprudenza, circa l’oggetto del contratto di acquisizione (v. il Ca­pitolo I). Il compratore, infatti, non può invocare, in mancanza di tali clau­sole, e salvo casi eccezionali o particolari, una tutela relativa alla consi­stenza del patrimonio sociale nel caso in cui questo risulti di valore infe­riore da quello prefigurato e presupposto; pertanto, l’inserimento di tali clausole nel contratto diviene fondamentale qualora voglia essere garan­tito su certe caratteristiche dell’azienda (ad esempio: che sussistano certi diritti di proprietà industriale e intellettuale; che non si verificheranno so­pravvenienze passive fiscali imputabili alla gestione del venditore; ecc.). D’altro lato, un effetto analogo a quello previsto dalle pattuizioni di rappresentazione e garanzia può essere raggiunto anche attraverso la previsione di una clausola di differimento del pagamento  del  prezzo (o di variabilità del medesimo: (v. il Capitolo XIII). Tuttavia, non è infre­quente che uno dei contraenti non accetti tale formulazione (ad esempio: il venditore pretende il pagamento immediato, ai fini di evitare di lasciare all’acquirente, che ha la gestione dell’impresa, la possibilità di influenzare la determinazione dell’aggiustamento del prezzo). Inoltre, la clausola re­lativa alla successiva fissazione del corrispettivo comporta spesso pro­blemi relativi al soggetto a ciò competente (rapporto tra clausole arbitra­ li e di arbitraggio: v. i Capitoli XXVII e XXVIII). In ogni caso, la successiva determinazione del prezzo produce un effetto diverso rispetto alle clau­sole di garanzia, in quanto incide sulla prestazione del compratore e non prevede, invece, un ulteriore obbligo a carico del venditore (e quindi, tale configurazione contrattuale richiede molta attenzione con riferimento, ad esempio, all’applicazione dei termini di decadenza o dei tetti e delle franchigie, che sono di norma previsti per le clausole di garanzia; o alla possibile applicazione di strumenti di tutela diversi: v. infra).
Non desta quindi sorpresa che, alla luce dell’orientamento prevalente in merito all’oggetto dell’acquisizione, il corpo centrale del contratto di acquisizione, e la sua parte più rilevante, sia dal punto di vista dell’ampiezza che dal punto di vi­ sta della difficoltà nella negoziazione, risulti costituito dalle clausole menziona­ te. Anche la giurisprudenza, fin almeno dal 1967, evidenzia l’importanza per l’acquirente dell’inserimento nel contratto di apposite pattuizioni al fi­ ne di ottenere una tutela relativa alla consistenza del patrimonio sociale. La Su­ prema Corte, infatti, ha statuito che in mancanza di tali garanzie contrattuali il compratore non può invocare tale tutela, e ha osservato che le parti predi­ spongono negli accordi una fitta di rete di clausole a carico del venditore, che è anche la parte più vicina alla fonte delle informazioni necessarie per valutare la convenienza dell’affare3.
Sovente le pattuizioni di rappresentazione e garanzia contenute nei con­ tratti di acquisizione vengono, a loro volta, inserite mutatis mutandis o con modifiche anche nei  contratti  di finanziamento  tra il compratore e gli istituti di credito.

2. La distinzione delle clausole dal punto di vista della loro formulazione: clausole di rappresentazione e clau­sole di garanzia
Tipo di clausole:
Come si accennava, i contratti di acquisizione normalmente contengono due tipi di clausole patrimorùali-reddituali4: con le prime il venditore esprime determinate dichiarazioni in merito all’effettivo stato del patri­monio sociale o dell’azienda al momento della conclusione del contratto, o in relazione alla gestione precedente dell’impresa (c.d. clausole di rappresentazione, o sempre utilizzando la terminologia inglese, repre­sentations o declarations); con le seconde, il venditore e l’acquirente ga­rantiscono, e quindi (come si vedrà infra in questo paragrafo) assicura­ no che si verificheranno, o meno, determinati eventi, assumendo, in tal caso, l’obbligo di corrispondere un indennizzo (c.d. garanzie o warran­ties). La distinzione tra i due tipi di clausole5, sebbene spesso svalutata co­ me meramente descrittiva, ha importanti conseguenze dal punto di vista della disciplina applicabile. Anche la giurisprudenza, del resto, sembra at­tribuire, nelle più recenti decisioni, una certa rilevanza a tale distinzione6.

Le clauso­le di rappresentazione   
Le prime pattuizioni, come si diceva, consistono in attestazioni circa la sussistenza di un fatto (lo stato del patrimonio sociale al momento della conclusione del contratto, situazione di cui il socio di «controllo» solitamente dovrebbe es­ sere a conoscenza) o espressive di un giudizio presentato come un fatto. Han­ no la funzione di spingere il venditore, prima di rilasciarle, ad analizzare la situazione della società; nonché di rassicurare l’acquirente circa l’opportunità dell’affare. Di norma tali clausole, in quanto inserite nel testo del contratto (spesso in collegamento con clausole di indennizzo o risarcimento) e in virtù del principio dell’art. 1367 c.c. (ossia del principio della conservazione degli effetti), hanno contenuto precettivo, sebbene sia opportuna un’ulteriore distin­zione al fine di comprenderne la disciplina.
Le clausole che si risolvono nell’espressione di giudizi oppure di opi­nioni non sembra possano creare un impegno del dichiarante o un affidamen­to tutelato; tuttavia, possono rilevare sia per l’accertamento di un vizio della vo­lontà dell’acquirente, sia nell’interpretazione di altre clausole (anche quelle che si vedranno in seguito) qualora ambigue (arg. ex art. 1363 c.c.).
Le clausole, invece, che hanno ad oggetto dichiarazioni in merito a fatti o circostanze precise, determinano un impegno e una correlativa responsabilità per la corrispondenza di quanto dichiarato7.
Si pensi, a questo proposito, alle clausole con cui il venditore dichiara che non esistono controversie a carico della società; che non vi sono accertamenti fiscali o previdenziali in corso; che gli immobili della società sono conformi a de­ terminate prescrizioni, ecc.

Gli effetti giuridici della non conformità del patrimonio sociale alla si­tuazione rappresentata nelle clausole di rappresentazione sono molto discussi.
In astratto, infatti, potrebbe ritenersi che la correlativa responsabilità del venditore possa configurarsi (come la giurisprudenza ha talvolta rite­nuto con riferimento alle lettere di patronage) quale responsabilità «pre­contrattuale», oppure extracontrattuale da affidamento. Tuttavia, tali in­terpretazioni non convincono in quanto il venditore assume con la dichia­razione in esame un preciso impegno contrattuale; del resto, la qualifica­ zione responsabilità contrattuale comprende, secondo l’opinione pre­valente, l’inadempimento di qualunque obbligazione, compreso anche l’ob­bligo di comportamento cui devono essere informati atti e fatti giuridici.
La conseguenza di tale interpretazione è che l’alienante si impegna, con la clausola di rappresentazione, ad aver effettuato la dichiarazione con l’oppor­tuna diligenza, e quindi dopo aver svolto i controlli necessari8. Di conseguenza, può esimersi da responsabilità, ai sensi dell’art. 1218 c.c., provando che l’inesattezza o incompletezza di quanto dichiarato sono dipese da causa a lui non imputabile9.

Le clau­sole di garanzia
Ben più forti sono gli effetti del secondo tipo di clausole, che non costi­tuiscono obbligazioni in senso tecnico (intese in termini soggettivo-personalistici di condotta debitoria), ma patti contrattuali che ricollegano al solo mancato verificarsi dell’evento conforme all’interesse della parte ga­rantita il sorgere dell’eventuale obbligazione (da intendersi, in questo ca­so, in senso tecnico) di indennizzo. Con tali clausole, in sostanza, e in mancanza di una formulazione che ne limiti l’applicazione10,  il  garante si assume il rischio del verificarsi, o non verificarsi, di un deter­ minato evento, a prescindere  da un giudizio di imputabilità  o me­ no di una certa condotta, e quindi senza la possibilità di una prova liberatoria ai sensi dell’art. 1218, ult. parte, e.e., e, di conseguenza, di poter invocare, con riferimento al rapporto sinallagmatico, l’art. 1463 e.e.n.

Per fare un esempio: l’alienante si impegna, nel caso in cui garantisca che en­ tro un determinato periodo di tempo non si verificheranno sopravvenienze fi­ scali, ad indennizzare l’acquirente (o la società) per l’importo relativo anche qualora non avesse alcuna conoscenza, né potesse averla, in merito alla cau­sa di tale sopravvenienza12.

La ragione economica di tali impegni è rappresentata dal fatto che, come si accennava, in un’operazione di trasferimento dell’«impresa» il com­pratore non intende assumersi rischi relativi a fatti che trovano causa o titolo nella precedente gestione, ma che possono verificarsi anche dopo molto tempo rispetto alla sottoscrizione del contratto (si pensi, oltre alle menzionate sopravvenienze fiscali, ad ipotesi di responsabilità da pro­ dotto; o ambientale; ecc.); inoltre, egli non intende attribuire rilevanza solo a sopravvenienze di cui il venditore possa essere ritenuto colposa­ mente o dolosan1ente responsabile, ma ad ogni evento relativo alla pre­cedente gestione.

Partecipazioni senza diritto di voto nella s.r.l.

SOMMARIO: 1. Introduzione: la discussa legittimità di partecipazioni senza diritto di voto. – 2. Limiti assoluti che impediscono la creazione di quote senza voto: il diritto di voto come elemento essenziale del tipo? – 3. (Segue). Ulteriori argomenti contrari: la “natura” della partecipazione sociale nella s.r.l. o la disciplina dell’art. 2351 c.c. – 4. (Segue). Presunti argomenti letterali contrari alla legittimità di tali partecipazioni. – 5. Limiti relativi alle quote senza voto (cenni).

1. Introduzione: la discussa legittimità di partecipazioni senza diritto di voto.
Nel sistema normativo della s.r.l. anteriore alla riforma del 2003 era principio consolidato che non fossero ammissibili quote senza diritto di voto né quote a voto limitato1. La tesi era fondata in primo luogo sul tenore letterale dell’art. 2485 c.c. previgente, che da un lato attribuiva ad ogni socio il diritto ad almeno un voto nell’assemblea, dall’altro non conteneva alcuna indicazione, a differenza degli articoli precedente e seguente, che facesse salva una diversa disposizione dell’atto costitutivo; in secondo luogo sulla mancanza nella s.r.l. di una disposizione corrispondente all’art. 2351 c.c. in tema di s.p.a.; infine su una ragione tipologica, ossia sulla normale presenza nella s.r.l. di soli soci imprenditori, necessariamente in grado di partecipare, almeno in potenza, alla vita della società.
Fortemente discussa era, invece, l’ammissibilità di quote a voto plurimo, da alcuni respinta sulla base dello stesso art. 2485 c.c. o sulla base dell’applicazione analogica dell’art. 2351, comma 3°, c.c. previgente 2; da altri accolta sulla base di considerazioni tipologiche: veniva considerata coerente con il tipo s.r.l. la possibilità di variare la misura delle posizioni soggettive in relazione all’importanza che ciascun socio potesse rivestire per la collettività 3.
Il problema (o i problemi) si presenta(no), dopo l’entrata in vigore della riforma, con connotati nuovi. Le disposizioni novellate rendono l’analisi del tema quanto mai stimolante (si pensi al nuovo art. 2468 c.c., che riconosce la legittimità di un’attribuzione dei diritti non proporzionale ai conferimenti, nonché la possibilità di assegnare a uno o più soci diritti particolari); inoltre l’instabilità del quadro sistematico della s.r.l. comporta che princìpi pacifici prima della riforma, e che erano alla base di soluzioni consolidate, possano risultare non più tali 4.
E proprio in conseguenza di questo quadro le opinioni sul tema risultano ora più articolate rispetto al passato. Da un lato, e in prevalenza, è rappresentata una tesi negativa, la quale si esprime in senso contrario alle quote senza voto o con diritto di voto limitato. In primo luogo, si conferisce rilievo al dato normativo: in particolare all’art. 2479, comma 5°, c.c. («ogni socio ha diritto a partecipare alle decisioni previste dal presente articolo e il suo voto vale in misura proporzionale alla sua partecipazione»); e all’art. 2468, comma 3°, c.c., che disciplina i diritti particolari, da interpretarsi come numerus clausus, e che non menziona – tra i diritti che possono essere attribuiti in modo non proporzionale rispetto alla partecipazione – quello di voto 5. In secondo luogo, la tesi negativa viene fondata (analogamente al passato) su considerazioni di vertice e tipologiche, e quindi sul ruolo del socio nella s.r.l. (che deve partecipare, almeno in potenza, alla vita societaria) 6; oppure sulla base dell’art. 2247 c.c., che, in assenza di una disposizione permissiva come quella dell’art. 2351, comma 2°, c.c., non consentirebbe una clausola statutaria che privi il socio del diritto di voto e quindi escluda la sua partecipazione alla gestione dell’attività comune 7.
D’altro lato non mancano autori che si sono espressi a favore della legittimità di quote senza voto o a voto limitato, in particolare argomentando dalla possibilità, prevista in generale all’art. 2468, comma 2°, c.c., di assegnare ai soci la quota di partecipazione al capitale (e quindi ai diritti sociali) in modo non proporzionale rispetto ai conferimenti; nonché in considerazione dell’ampia autonomia statutaria riconosciuta quale carattere distintivo alla s.r.l. 8.
A fronte di questo quadro così composito, appare interessante dedicare al tema un approfondimento, anche alla luce dell’importanza che hanno le quote senza voto in altri ordinamenti 9, e dell’ammissibilità di tali partecipazioni anche nelle recenti proposte di Regolamento relativo allo statuto di una Società privata europea 10.

2. Limiti assoluti che impediscono la creazione di quote senza voto: il diritto di voto come elemento essenziale del tipo? – L’analisi concernente l’ammissibilità di quote senza diritto di voto nella s.r.l. deve in primo luogo confrontarsi con l’esistenza, o meno, di limiti c.d. assoluti che, in ipotesi, potrebbero rendere illegittima una previsione dell’atto costitutivo in questo senso 11; in particolare, sulla base degli argomenti ricordati al paragrafo precedente, il principio della rilevanza centrale del socio o della necessaria partecipazione di quest’ultimo alla gestione dell’attività comune.
L’illegittimità di quote senza diritto di voto potrebbe derivare, seguendo questo ragionamento, da un esame della disciplina complessiva della s.r.l. la quale, come noto, attribuisce rilievo centrale al ruolo del socio, da considerarsi quale vero e proprio «socio imprenditore», o della partecipazione sociale, caratterizzata da una serie di diritti amministrativi (ad esempio: il diritto di controllo; di impugnazione; e, in thesi, anche di voto) da ritenersi indisponibili; in secondo luogo, l’inammissibilità sarebbe desumibile dal confronto con la disciplina della s.p.a., la quale (sola) consentirebbe l’attribuzione di partecipazioni senza diritto di voto, in virtù della possibilità di permettere l’investimento in tale tipo anche a soggetti non interessati alla gestione della società.
Il primo argomento, sostenuto anche in altri ordinamenti 12, pare superabile non solo con le obiezioni che, in senso critico, si potrebbero immediatamente muovere allo scopo di negare rilievo al ruolo centrale del socio: il principio è privo di reale portata precettiva, e comunque è posto sullo stesso piano di quello della tutela dei rapporti contrattuali tra i soci 13; la natura imprenditoriale del socio è un mero slogan, dato che il socio non viene considerato tale neppure nelle società di persone 14, almeno in senso proprio 15; in ogni caso, il regime della s.r.l. è «assai poco adatto ad una struttura caratterizzata dalla presenza esclusiva o comunque prevalente di “soci imprenditori”» 16.
L’argomento pare superabile soprattutto con una considerazione altrettanto di vertice; ossia la distinzione, sia dal punto di vista formale che dal punto di vista sostanziale, da un lato tra il diritto di voto del socio e quello alla partecipazione alla decisione (diritto di intervento; di informazione e di ispezione; di impugnazione); d’altro lato tra il diritto di voto e il diritto a prestare il consenso individuale per determinate decisioni (distinzione che in Germania è efficacemente indicata con i termini Stimmrecht e Zustimmungsrecht 17). Un conto è, infatti, il diritto del socio a partecipare con la sua manifestazione di volontà alla formazione della decisione sociale, altro è il diritto di intervenire alle decisioni ed eventualmente impugnarle, pur senza poter esprimere il diritto di voto (distinzione tra diritto di voto e di partecipazione alla decisione); un conto è il diritto di esprimere il consenso o approvare una decisione, quando la volontà della collettività incide sul contenuto di alcuni diritti indisponibili del socio, altro è il diritto di votare in ogni decisione (distinzione tra diritto al consenso e diritto di voto) 18. Orbene: le quote senza diritto di voto escludono quest’ultimo, non, invece, il diritto a partecipare ad ogni decisione (ed eventualmente ad impugnarla); non eliminano il diritto del socio, in certi casi, ad esprimere il suo (necessario) consenso per la (efficace o valida) assunzione di determinate decisioni che incidono su diritti indisponibili.
Ciò che, sulla base di questa duplice distinzione, deve essere salvaguardato in ogni caso è, quindi, il diritto alla partecipazione ad ogni decisione e al consenso a certe specifiche delibere; si dovrebbe ritenere consentito, invece, l’esclusione convenzionale del diritto di voto, allo scopo di equilibrare il rapporto tra le due…

Commento agli artt. 2438-2444

Art. 2438
Aumento di capitale

Un aumento di capitale non può essere eseguito fi no a che le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate.
In caso di violazione del precedente comma, gli amministratori sono solidalmente responsabili per i danni arrecati ai soci ed ai terzi. Restano in ogni caso salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione del precedente comma.

Commento di MARCO SPERANZIN

1. PRECEDENTE DISCIPLINA. – LE NOVITÀ DELLA NORMA. – 2. LA RATIO DELLA NORMA E IL COORDINAMENTO CON L’ART. 2420-BIS C.C. – 3. IL PRIMO COMMA: L’AMBITO DI OPERATIVITÀ DEL DIVIETO… – 4. …E LE FATTISPECIE CONSENTITE. – 5. IL SECONDO COMMA: LA SALVEZZA DELLE SOTTOSCRIZIONI E LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI. – 6. DELIBERA DI AUMENTO DEL CAPITALE IN PRESENZA DI PERDITE.

1. Precedente disciplina. Le novità della norma
La formulazione dell’art. 2438 c.c., prima della modifica del 2003, disponeva che non potessero emettersi nuove azioni fi no a che le azioni precedentemente emesse non fossero state interamente liberate. Si trattava di una disposizione che riproduceva una norma del codice di commercio del 1882 e che non era stata modificata dal d.p.r. 10.2.1986, 30, ossia dal provvedimento di attuazione della II Direttiva CE, in quanto quest’ultima non si occupa dei presupposti dell’aumento di capitale.
Il dibattito sull’ambito applicativo dell’art. 2438 c.c. si era concentrato sull’ammissibilità o meno dell’assunzione di una delibera di aumento da parte dell’assemblea in mancanza di integrale liberazione delle azioni precedentemente emesse. Secondo la tesi prevalente, anche se non pacifica, la disposizione impediva non solo di eseguire un aumento di capitale, ma anche di deliberarlo nel caso in cui fossero state sottoscritte azioni non interamente liberate o potessero essere sottoscritte, in forza di una delibera assunta ma ancora inattuata, azioni senza contestuale integrale liberazione1.
La legge delega al Governo per la riforma del diritto societario (l. 3.10.2001, 366) non forniva al legislatore delegato particolari indirizzi in materia, limitandosi a stabilire (art. 4, c. 9, lett. b) la revisione della disciplina dell’aumento del capitale. Tuttavia l’introduzione del nuovo testo dell’art. 2438 c.c. era stata preceduta dall’abrogazione della fattispecie penale dell’art. 2630, c. 1, n. 1, c.c., che sanzionava gli amministratori che emettono nuove azioni o attribuiscono nuove quote prima che quelle sottoscritte precedentemente siano state interamente liberate2.
La nuova disposizione prevede ora al c. 1 che un aumento di capitale non può essere eseguito finché le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate; al c. 2 specifica che gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione della norma restano salvi, ferma la responsabilità solidale degli amministratori nei confronti dei soci e dei terzi per i danni arrecati.

2. La ratio della norma e il coordinamento con l’art. 2420-bis c.c.
La ratio dell’art. 2438 c.c. è ricondotta dalla tesi prevalente, seppur con diverse sfumature, ad un generale sfavore verso la costituzione di un patrimonio formato da crediti nei confronti dei soci (crediti che potrebbero risultare di difficile realizzazione), al fi ne di garantire un equilibrato ricorso alle fonti di finanziamento, nonché al fi ne di impedire abusi da parte dell’organo amministrativo e dei soci di maggioranza3; si intende soprattutto evitare che la società proponga un’immagine falsa della propria situazione finanziaria sollecitando nuove operazioni sul capitale4.
La norma, come modificata dalla riforma, attenua la portata del divieto in quanto consente ora di deliberare un aumento di capitale, ossia di programmare la raccolta delle sottoscrizioni, anche quando il precedente aumento di capitale sia stato eseguito, ma non interamente liberato5. L’organo amministrativo ha il dovere di non dare esecuzione alla delibera fino a che le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate.
L’interpretazione è confermata dalla corrispondente norma in materia di s.r.l., l’art. 2481, c. 2, c.c. (che vieta l’attuazione della decisione di aumento del capitale in presenza di un precedente aumento non completamente liberato). Non è stata invece modificata la disposizione in tema di emissione di obbligazioni convertibili (art. 2420-bis c.c.), che continua a prevedere che la deliberazione di emissione del prestito convertendo non può essere adottata se il capitale sociale non è stato integralmente versato. Si tratta, secondo la tesi prevalente, di un difetto di coordinamento. Già prima della riforma si giungeva, da parte della dottrina e con riferimento alla delibera ex art. 2420-bis, c. 1, prima parte, c.c., alla conclusione ora prevista dal nuovo art. 2438 c.c. (divieto di eseguire la delibera)6; inoltre il divieto ex art. 2420-bis, c. 1, prima parte, c.c. è finalizzato a impedire l’elusione, attraverso l’emissione di un prestito obbligazionario convertibile, degli stessi interessi tutelati dall’art. 2438 c.c.7. Il mancato coordinamento tra la norma in commento e l’art. 2420-bis, c. 1, prima parte, c.c. può essere quindi risolto in via sistematica dall’interprete: anche l’aumento di capitale a servizio del prestito e, secondo alcuni, l’emissione delle obbligazioni possono essere deliberati nel caso in cui il capitale sociale non risulti interamente versato, fermo restando il divieto di esecuzione della delibera (e quindi, ad es., il divieto di emettere i titoli, ossia obbligazioni convertibili o warrant)8.
Secondo altri, invece, tale disposizione vieta la stessa delibera di aumento (e la contestuale decisione di emissione delle obbligazioni), in quanto la protezione dell’obbligazionista come creditore (fi no al momento della conversione) deve essere più incisiva rispetto a quella del sottoscrittore di un aumento del capitale9; del resto la società non può limitarsi a deliberare l’aumento del capitale sociale e la contestuale emissione delle obbligazioni, perché nel caso dell’art. 2420-bis c.c. – a differenza dell’art. 2438 c.c. – l’organo amministrativo non ha il potere-dovere di attendere a dare esecuzione all’aumento (al servizio della conversione) fi no all’integrale liberazione delle azioni precedentemente emesse: gli obbligazionisti, infatti, hanno il diritto di convertire le obbligazioni alle scadenze previste dal regolamento del prestito, e la società non può rifiutare l’emissione delle relative azioni.
In ogni caso, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 2438 c.c., la clausola comunemente inserita nei verbali assembleari di aumento del capitale, secondo cui il presidente dell’assemblea attesta che il capitale sociale risulta interamente sottoscritto e versato, appare utile (sebbene non è più necessaria per la deliberazione assembleare), perché chiarisce che il nuovo aumento di capitale risulta immediatamente eseguibile10.

3. Il primo comma: l’ambito di operatività del divieto…
La norma impedisce l’esecuzione di un aumento di capitale quando le azioni precedentemente emesse non risultano interamente liberate, ossia quando non è stato versato l’intero conferimento in danaro11.
Innanzitutto risulta opportuno distinguere emissione delle azioni ed esecuzione dell’aumento del capitale. La prima individua il momento in cui viene creata la partecipazione sociale (v. anche art. 2346 c.c.), momento che, dal punto di vista del rapporto società-socio e come si vedrà nel commento all’articolo seguente, coincide con la sottoscrizione (di una parte) dell’aumento del capitale; la sottoscrizione vincola colui che la esegue e la società, e costituisce la «causa» della creazione della partecipazione azionaria, che può poi (eventualmente) concretizzarsi in un titolo azionario12.
Un’interpretazione diversa, che distingua la sottoscrizione dell’aumento di capitale, intesa come nascita del vincolo tra sottoscrittore e società, rispetto all’emissione delle azioni, intesa come creazione della partecipazione sociale, potrebbe sostenersi sulla base di un argomento strettamente letterale, ossia osservando che il secondo comma della norma in commento stabilisce che «restano…salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione del precedente comma». Potrebbe quindi sostenersi che la norma pone un vincolo solo nei casi in cui vi sia stata o vi debba essere l’emissione materiale dei titoli azionari, al fi ne di tutelare la circolazione in forma cartolare.
Al di là dei significati che può assumere, nelle diverse disposizioni normative, il termine «emissione» delle azioni13, l’interpretazione letterale proposta non appare convincente, in virtù delle diverse modalità di rappresentazione delle partecipazioni azionarie ex art. 2355 c.c. (emissione o meno dei titoli azionari; azioni dematerializzate), che non paiono giustificare (almeno nel caso della circolazione dei titoli e delle azioni dematerializzate) una conclusione diversificata, che renda applicabile solo nel caso dei titoli l’art. 2438 c.c.; e in virtù dell’osservazione che il legislatore ha considerato come ipotesi ordinaria la correlazione tra partecipazione azionaria e rappresentazione cartolare della stessa, come confermano numerose norme (in primo luogo l’art. 2346 c.c., ma v. anche gli artt. 2354, 2355 e 2437-bis, c. 2, c.c.)14. Inoltre la ratio dell’art. 2438 c.c. non è (o almeno non è solo) diretta ad impedire una circolazione dei titoli azionari non interamente liberati15. L’azione rileva dunque, ai fini della norma in esame, come partecipazione sociale e non come titolo rappresentativo.
Più complesso appare stabilire cosa significhi il divieto di esecuzione del secondo aumento di capitale e a quali attività di attuazione della delibera questo divieto si estenda. Una volta che l’assemblea (o l’organo amministrativo delegato ex art. 2443 c.c.) ha deliberato il secondo aumento di capitale, e una volta che tale delibera risulta iscritta nel registro delle imprese16, non è chiaro infatti se, in presenza di un precedente aumento non interamente liberato, sia preclusa ogni tipo di attività esecutiva, oppure se vi sia qualche spazio per attività strumentali alla realizzazione della fattispecie di aumento del capitale.
La dottrina che si è occupata finora dell’argomento è orientata a ritenere che non si possa procedere alla raccolta delle sottoscrizioni dell’aumento di capitale, che perfezionano immediatamente il vincolo tra la società e gli aderenti17. Risulta pertanto necessario distinguere tra aumento del capitale con diritto di opzione a favore dei soci e con esclusione del diritto di opzione. Nel primo caso l’esecuzione inizia con la pubblicazione dell’offerta ai sensi dell’art. 2441, c. 2, c.c.: non è consentita l’iscrizione nel registro delle imprese dell’avviso di opzione relativamente al secondo aumento di capitale (altrimenti la società non potrebbe rifiutare la sottoscrizione delle nuove partecipazioni); nel secondo caso l’esecuzione inizia con la sottoscrizione da parte dei terzi individuati dagli amministratori.
Poiché la ratio della norma viene collegata alla necessità di garantire un equilibrato ricorso alle fonti di finanziamento e di impedire abusi da parte dell’organo amministrativo e dei soci di maggioranza, non sembra invece possa costituire esecuzione in senso tecnico la pubblicità della delibera di aumento del capitale («omologazione» notarile e iscrizione nel registro delle imprese), che costituisce solamente un adempimento necessario per l’efficacia della delibera18, così come non costituisce esecuzione in senso tecnico tutto ciò che riguarda la concretizzazione della delibera di aumento di capitale programmato, quale, ad esempio, l’eventuale ricerca dei sottoscrittori (nel caso di aumento con esclusione del diritto di opzione), oppure l’eventuale delibera dell’organo amministrativo che richieda che la futura (ed eventuale) sottoscrizione del nuovo aumento debba rivestire una determinata forma o sia accompagnata da determinati adempimenti materiali19.
Maggiormente dubbia è invece la possibilità di procedere alla raccolta di sottoscrizioni subordinate all’integrale liberazione delle azioni emesse sulla base del o dei precedenti aumenti di capitale, in quanto tale raccolta costituisce indubbiamente esecuzione della delibera e poiché si porrebbe altrimenti in pericolo uno degli obiettivi che la norma vuole impedire (possibili abusi nella gestione della formazione del capitale sociale e della base azionaria della società).

4. …e le fattispecie consentite
In forza di tali considerazioni, in base al nuovo testo dell’art. 2438 c.c. potrà sempre deliberarsi un nuovo aumento del capitale, e quindi, ad esempio: quando le azioni emesse in relazione al precedente aumento di capitale sono state interamente liberate; quando le azioni relative al precedente aumento, pur se sottoscritte, non risultano interamente liberate (ossia è stato versato solo il venticinque per cento o comunque non il cento per cento del conferimento in danaro); quando la delibera relativa all’aumento di capitale precedente risulta ancora inattuata; quando il termine di sottoscrizione relativo ad una precedente delibera non sia ancora decorso; quando è stato deliberato un precedente aumento di capitale con attribuzione di opzioni contrattuali ( warrant) per la sottoscrizione di azioni di nuova emissione20.
Tuttavia la società potrà procedere alla esecuzione della seconda delibera di aumento solo quando le azioni emesse in relazione al precedente aumento di capitale sono state interamente liberate, oppure quando la delibera relativa all’aumento di capitale precedente, ancora completamente inattuata, verrà eseguita successivamente (ad esempio: il primo aumento del capitale è al servizio di un’emissione di obbligazioni convertibili) o dispone che le azioni devono essere interamente liberate contestualmente alla sottoscrizione, in quanto in quest’ultima ipotesi manca il presupposto di operatività del divieto di legge,

Questioni in tema di aumento del capitale “delegato agli amministratori” nella s.r.l.

SOMMARIO: 1. Introduzione: le novità in materia di aumento del capitale sociale nella s.r.l. e la disciplina dell’aumento «delegato» agli amministratori negli altri ordinamenti europei. – 2. L’attribuzione della decisione di aumento del capitale sociale agli amministratori: la tesi prevalente favorevole a configurare un’ipotesi di delega ex art. 2443 c.c. – 3Critica alla tesi prevalente. Diversità della disciplina dalla s.p.a., autonomia statutaria e organizzazione corporativa nella s.r.l. – 4. (Segue): traslazione di competenza, delega in senso stretto e delega tecnica: conseguenze applicative. – 5. Attribuzione agli amministratori della facoltà di aumentare il capitale sociale mediante imputazione di riserve. Mancata indicazione dell’ipotesi nel testo della clausola.

1. Introduzione: le novità in materia di aumento del capitale sociale nella s.r.l. e la disciplina dell’aumento «delegato» agli amministratori negli altri ordinamenti europei. – La disciplina dell’aumento del capitale sociale a pagamento è stata modificata dalla riforma del diritto societario, per quanto riguarda la s.p.a., in particolare con riferimento a due aspetti: da un lato, è stato aggiunto un nuovo caso di esclusione o non spettanza del diritto di opzione per le società con azioni quotate sui mercati regolamentati (art. 2441, comma 4°, seconda parte, c.c.); dall’altro è stato ampliato il possibile contenuto della delega all’organo amministrativo, che può ora comprendere anche la decisione concernente l’esclusione o la limitazione del diritto di opzione1.
Costituisce invece una (integrale) novità la previsione di una disciplina autonoma e organica dedicata all’aumento del capitale nella s.r.l. 2: gli artt. 2481, 2481 bis e 2481 ter c.c. prevedono infatti un’articolata normativa in luogo del previgente art. 2495 c.c. Quest’ultima disposizione, come è noto, si limitava a rinviare a parte della disciplina della s.p.a., e sulla base del contenuto di tale rinvio si potevano ritenere acquisiti (anche se con qualche voce contraria) i seguenti prìncipi: da un lato la delibera di aumento del capitale sociale a pagamento doveva attribuire ai soci il diritto di sottoscrivere il nuovo capitale, con la sola eccezione dell’aumento del capitale da liberare mediante conferimenti in natura, in cui si ammetteva l’esclusione ex lege del diritto di opzione 3 (e – secondo alcuni – del caso in cui vi fosse una specifica clausola statutaria, inserita all’unanimità, che consentisse l’esclusione del diritto di opzione in ulteriori ipotesi 4; d’altro lato non poteva essere delegata agli amministratori la facoltà di aumentare il capitale sociale, in virtù (così la Relazione al Re, n. 1019) dell’eccezionalità dell’istituto della delega e delle caratteristiche rivestite dalla s.r.l., e in particolare per la più diretta partecipazione dei soci alla gestione della società nonché per l’assenza di esigenze di pronta reazione ad istanze del mercato dei capitali5. Si affermava altresì, con riferimento a questi ultimi aspetti, che il divieto di delega agli amministratori costituisse uno dei pochi casi in cui il legislatore della s.r.l. aveva stabilito una norma imperativa non per la presenza di interessi pubblici da tutelare, ma per ragioni tipologiche 6.
Orbene: i prìncipi considerati pacifici dalla dottrina prevalente risultano entrambi ribaltati dalla riforma del diritto societario, in quanto da un lato è prevista – senza apparenti limiti – la possibilità di escludere o limitare il diritto di sottoscrizione dei soci (art. 2481 bis c.c.); d’altro lato è consentito attribuire all’organo amministrativo la facoltà di aumentare il capitale sociale (art. 2481 c.c.).
Con riferimento a quest’ultimo aspetto – il solo sul quale sarà incentrata la presente indagine – si noti fin da subito che si tratta di una norma che ha già sollevato interrogativi (oltre che in dottrina, che ha dubitato della sua giustificazione 7 nella giurisprudenza e nella prassi italiana 8; nonché è stata oggetto di

analisi da parte di un Collegio arbitrale presieduto dal Maestro cui questo scritto
è dedicato9. Del resto una disposizione siffatta non trova (o trovava) paralleli negli ordinamenti tradizionalmente considerati più vicini.
Infatti né la legge spagnola, né quelle svizzera, portoghese o belga contengono un’espressa previsione relativa alla delega agli amministratori dell’aumento del capitale nella s.r.l. Per lo più, e inversamente, tale facoltà viene esclusa, in considerazione (alla stesso modo di quanto si sosteneva nel vigore della precedente disciplina italiana) delle caratteristiche tipologiche e del ruolo dell’assemblea nella società a responsabilità limitata.
In particolare, la Ley de Sociedades de Responsabilidad Limitada spagnola stabilisce che l’aumento del capitale sociale può essere deciso solo dalla Junta General (art. 76), che ha in materia una competenza esclusiva10. Si esclude altresì la possibilità di attribuire agli amministratori una delega tecnica, volta ad integrare il contenuto della decisione assembleare11. L’unico ruolo attribuito all’organo gestorio è quello di poter offrire le quote non sottoscritte ai terzi qualora i soci non abbiano esercitato né il diritto di sottoscrizione né il diritto di prelazione sull’inoptato (c.d. terzo giro)12. Analogamente la dottrina svizzera ritiene che il rinvio contenuto nella nuova disciplina della GmbH (rinvio alla sola disciplina dell’AG concernente l’aumento ordinario del capitale) costituisca un «qualifiziertes Schweigen», tale da escludere la possibilità di delega dell’operazione all’organo amministrativo13. Analoga è la posizione nell’ordinamento belga14. L’art. 266 del Código das Sociedades Comerciais portoghese, infine, prevede un rinvio alle norme in tema di s.p.a. relative alla facoltà per l’assemblea dei soci di limitare o sopprimere il diritto di opzione nonché alla facoltà di attribuire all’organo amministrativo la delega ad aumentare il capitale sociale; il rinvio sembrerebbe consentire non solo la delega di quest’ultima decisione, ma anche di quella relativa all’esclusione del diritto di opzione15. Tuttavia la dottrina è concorde nel ritenere che le modifiche del contratto sociale sono nelle sociedades por quotas di esclusiva competenza dei soci, sicché pare da escludere la possibilità di delegare agli amministratori l’aumento del capitale (e a maggior ragione l’esclusione del diritto d’opzione)16.
Anche la dottrina tedesca, d’altro lato, riteneva che nella GmbH l’aumento di capitale delegato (o, più correttamente secondo quell’ordinamento, autorizzato) fosse illegittimo, per violazione dell’inderogabile competenza assembleare17, nonché in ogni caso superfluo, data la facilità della convocazione dell’assemblea in tale tipo di società18; anche se non si escludeva che l’assemblea potesse autorizzare l’amministratore, altrimenti incompetente, a procedere alla raccolta delle sottoscrizioni degli eventuali terzi entro un periodo massimo di sei mesi (una volta che, sulla base della delibera dell’assemblea dei soci, fosse stata decisa l’esclusione del diritto di opzione)16. La disciplina è, tuttavia, di…

Appunti sull’art. 2440-bis c.c.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La ratio della disposizione. – 3. Il problema dell’informativa agli azionisti. – 4. L’applicazione residuale dell’art. 2343 c.c. e il significato del divieto di esecuzione del conferimento. – 5. Irrazionalità della limitazione del diritto dei soci al caso dell’aumento di capitale delegato: estensione, in via diretta o analogica, del diritto dei soci previsto dall’art. 2440-bis c.c. all’aumento
deliberato dall’assemblea.

1. L’art. 2440-bis c.c., come noto, è stato introdotto dal d. lgsl. 4.8.2008, n. 142, in attuazione della direttiva 2006/68/CE, e in particolare per tenere conto dell’art. 10-bis, paragrafi 2 e 3, e dell’art. 10-ter, paragrafo 2, della seconda direttiva 77/91/CE (così come inseriti proprio dalla direttiva 2006/68/CE).
Mentre le altre disposizioni introdotte da quest’ultima direttiva sono già state oggetto di indagini approfondite1, l’art. 2440-bis c.c. è rimasto, per lo più, «ai margini» dei commenti. E ciò nonostante la disposizione da un lato sia di rilevante importanza teorica e pratica, in quanto rappresenta un ulteriore ampliamento dell’istituto della delega all’organo amministrativo2, e in quanto si può immaginare che il maggior numero di conferimenti con valutazione semplificata verrà effettuato a seguito dell’aumento del capitale sociale, normalmente deliberato dagli amministratori; d’altro lato l’art. 2440-bis c.c. presenti, anche ad un esame superficiale, molteplici questioni interpretative e imprecisioni tecniche.
Basti pensare, con riferimento alle prime, al significato del divieto di esecuzione del conferimento entro un certo periodo (v. il comma 2°); oppure al problema dell’estensione, o meno, anche all’aumento del capitale non delegato del diritto dei soci di richiedere una valutazione ex art. 2343 c.c., estensione che la disposizione sembrerebbe escludere.
Con riferimento alle seconde (ossia alle imprecisioni tecniche, almeno sulla base dei princìpi e della terminologia finora consolidati3) si può menzionare sia la rubrica della disposizione (Aumento di capitale delegato liberato mediante conferimenti di beni in natura e di crediti senza relazione di stima), che prevede quale oggetto della liberazione mediante conferimenti non in danaro l’aumento del capitale, e non le azioni a fronte di quest’ultimo sottoscritte (cfr., invece, gli artt. 2342, comma 3°, e 2441, comma 4°, c.c.); sia il testo, secondo il quale – tra le altre osservazioni che si potrebbero fare – il conferimento di beni in natura o di crediti viene deliberato (mentre secondo il lessico degli artt. 2438 ss. c.c. ciò che viene deliberato è l’aumento del capitale, che può essere sottoscritto, qualora la decisione lo preveda, anche conferendo beni diversi dal danaro)4.
Ciò che, tuttavia, maggiormente interessa all’interprete sono i problemi applicativi della disposizione, e su alcuni di questi vuole indugiare la presente analisi.

2. L’art. 2440-bis c.c. ha in primo luogo la funzione, comune all’art. 2440 c.c. come modificato dal d. lgsl. 4.8.2008, n. 142, di adattare all’aumento del capitale sociale l’opzionale disciplina c.d. alternativa o semplificata della valutazione dei conferimenti non in danaro (o, se si preferisce, dei conferimenti senza relazione di stima: v. la rubrica dell’art. 2343-ter c.c.5) prevista in tema di costituzione della società; più precisamente, di adattare tale disciplina al caso in cui la facoltà di aumentare il capitale sia stata delegata all’organo gestorio. Pertanto, gli amministratori (e i consiglieri di gestione) devono, al fine della corretta formazione del capitale sociale, accertare che non siano sopravvenuti al momento della delibera consiliare di aumento «fatti eccezionali» o «fatti nuovi rilevanti» che rendano la valutazione del conferimento (e quindi: il prezzo dei valori mobiliari o degli strumenti del mercato monetario; il valore equo ricavato da un bilancio approvato da non oltre un anno; il valore equo determinato da un esperto indipendente e professionale) non più attendibile; accertare, in altre parole, che non siano sopravvenuti fatti che richiedano una stima ex art. 2343 c.c.6.
In secondo luogo, la disposizione ha la specifica funzione di prevedere una disciplina caratteristica (ma, come si vedrà, non in ogni sua parte esclusiva) del solo aumento del capitale sociale delegato.

Da un lato, e come indicato dalla Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, l’art. 2440-bis c.c. (v. il 1° comma) richiede una determinata pubblicità della decisione e della verifica dell’organo gestorio, che consenta ai soci e ai terzi di poter conoscere, prima che il conferimento venga eseguito, che l’organo amministrativo ha deliberato di aumentare il capitale seguendo la procedura di valutazione semplificata7, e così consenta l’informazione su una serie di circostanze relative al conferimento (quelle indicate all’art. 2343-quater, comma 3°, c.c., richiamato dalla norma in commento8). L’organo amministrativo non può, pertanto, immediatamente «dare esecuzione al conferimento»9, ma deve depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese, in allegato al verbale della deliberazione consiliare di aumento, una dichiarazione (come detto con i contenuti di cui all’articolo 2343-quater, comma 3°, c.c.), e con l’indicazione, altresì, della data della delibera10.
D’altro lato, e in stretta connessione, la disposizione (v. il comma 2°) attribuisce ai soci, che rappresentano almeno il ventesimo del capitale sociale, il diritto di richiedere la presentazione di una nuova valutazione ai sensi dell’art. 2343 c.c.11, in attuazione dell’art. 10-bis, 2° comma, ultima parte, della seconda direttiva 77/91/CE (così come inserito dalla direttiva 2006/68/CE). Il Terzo considerando di quest’ultima prevede, infatti, che dovrebbe (sic) essere in ogni caso garantito il diritto degli azionisti di minoranza di esigere la valutazione da parte di un esperto; e l’art. 10-ter, comma 3°, della medesima direttiva richiede che ogni Stato membro preveda garanzie adeguate per assicurare il rispetto della procedura semplificata, tra le quali lo stesso legislatore comunitario include il diritto dei soci ad una valutazione da parte di un esperto indipendente secondo la disciplina comune.

3. La prima questione interpretativa che l’art. 2440-bis c.c. pone è quella della (eventuale) informativa da garantire agli azionisti in relazione alla decisione di aumento del capitale sociale delegato con facoltà di esclusione o limitazione del diritto di opzione (come quasi sempre avverrà a seguito del conferimento di beni non in danaro); qual è, in altre parole, il rapporto tra la decisione dell’organo gestorio e l’informativa garantita ai soci dall’art. 2441, comma 6°, c.c., sia in merito agli interessi sottostanti all’operazione, sia in merito ai criteri di determinazione del prezzo di emissione delle azioni.
Non è un problema che riguarda solo il caso dell’aumento del capitale delegato con conferimenti valutati in modo semplificato, e non è un problema che riguarda solo la disciplina italiana. All’opposto, l’art. 2443 c.c., ossia la norma generale sull’attribuzione della delega, determina notevoli difficoltà nella parte in cui dispone, per i casi in cui all’organo amministrativo sia stata conferita anche la facoltà (ulteriore rispetto a quella di aumentare il capitale) di escludere il diritto di opzione, che «in questo caso si applica in quanto compatibile il sesto comma dell’art. 2441». Inoltre, tale tema ha una risonanza a livello europeo, in considerazione delle difficoltà determinate dal coordinamento della disciplina comunitaria dei conferimenti non in danaro, della delega e dell’esercizio dell’opzione12; ed è un tema che ha avuto degli sviluppi giurisprudenziali importanti, in particolare nell’ordinamento tedesco (casi Siemens/Nold e Mangusta/Commerzbank I)13.
Non risulta, infatti, chiaro se l’applicabilità della tutela di tipo informativo e procedimentale disposta dall’art. 2441 c.c. si riferisca alla delibera assembleare di delega, alla delibera consiliare di esecuzione della delega o ad entrambe, e al quesito sono state già date, nei contributi pubblicati, risposte diverse14.
In argomento pare preferibile la tesi secondo cui in sede di delibera assembleare di delega l’organo amministrativo possa limitarsi ad illustrare in assemblea, con una propria relazione (dal contenuto diverso e più sintetico rispetto a quello della relazione prevista dalla norma citata), la proposta di aumento del capitale, che determini, in astratto, le ragioni dell’esclusione del diritto d’opzione, in modo tale che l’assemblea possa deliberare di delegare anche la facoltà di escludere il diritto degli azionisti, indicando i relativi criteri15; la relazione illustrativa dell’organo amministrativo, il parere di congruità dell’organo di controllo (o, per chi lo ritiene, del revisore legale) e l’eventuale relazione di stima devono, invece, essere predisposti (e, pare preferibile, come si dirà tra un attimo, depositati) in occasione della delibera consiliare di esercizio della delega. Infatti, e tra l’altro, non avrebbe senso l’attribuzione della delega, se già i presupposti dell’aumento dovessero essere cristallizzati nei documenti previsti dall’art. 2441, comma 6°, c.c., da depositare prima dell’assemblea che conferisce la delega (che potrebbe essere di molto anteriore all’esercizio della stessa)16. Quest’ultima conclusione risulta altresì conforme…

Il fallimento della società estinta

SOMMARIO: 1. La disciplina dell’estinzione della società e le nuove ipotesi di cancellazione dal registro delle imprese. -2.  L’art. 10 1. fall. e (alcuni) problemi conseguenti. – 3. Questioni in tema di fallimento di società di persone estinte. – 4. Il fallimento delle società non iscritte nel registro delle imprese. – 5. La tutela dei creditori prima della iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese e dopo tale iscrizione. La responsabilità dei liquidatori per debito o per danni.

1. La disciplina dell’estinzione della società e le nuove ipotesi di cancellazione dal registro delle imprese. A seguito del nuovo art. 2495, 2° comma, c.c. si deve ritenere certo che la società (per lo meno di capitali (1) sia da considerarsi estinta con l’approvazione del bilancio finale di liquidazione e la successiva iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese (2).
Non si può quindi più sostenere, come faceva la giurisprudenza prevalente nel vigore della precedente norma dell’art. 2456 c.c., che la società continui ad esistere finché tutti i rapporti ad essa facenti capo, siano essi attivi o passivi, sostanziali o processuali, non siano stati completamente definiti (3). Il legislatore, con l’inserimento dell’inciso “ferma restando l’estinzione della società” nel 2° comma dell’art. 2495 c.c., ha in sostanza accolto l’indirizzo decisamente prevalente in dottrina secondo il quale la società come soggetto di diritto deve considerarsi estinta dal momento dell’attuazione della pubblicità nel registro delle imprese, mediante iscrizione del fatto estintivo (la cancellazione della società). Tale conclusione deve ritenersi ferma anche qualora la società sia stata cancellata in presenza di debiti non soddisfatti e di rapporti processuali pendenti (4): non avrebbe altrimenti senso il nuovo art. IO I. fall. che, come vedremo, assoggetta l’ente estinto a fallimento per un anno dalla data dell’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese (considerare  che la norma sia stata pensata solo per l’ipotesi in cui sopravvengano debiti successivamente alla cancellazione pare, infatti, poco convincente, pur se è vero che l’insolvenza può dipendere anche da fatti  successivi  all’iscrizione della cancellazione); non avrebbe altrimenti senso il nuovo art. 2490 c.c., che prevede l’iscrizione della cancellazione d’ufficio.
Rimane aperto il problema della natura della responsabilità dei soci (art. 2495, 2° comma, c.c.) a seguito dell’estinzione dell’ente (5) (problema che ha rilevanti, e – se non inteso correttamente – inquietanti, effetti processuali (6); in relazione al momento dell’estinzione dell’imprenditore collettivo è stata però fatta chiarezza (anche la giurisprudenza della Cassazione ha da ultimo mutato il proprio granitico orientamento precedente) (7).
Successivamente alla riforma del diritto societario, che ha chiarito il collegamento tra cancellazione dal registro delle imprese ed estinzione della società, si è verificata una proliferazione di norme in tema di iscrizione della cancellazione delle società dal registro delle imprese.
Già il legislatore delegato aveva introdotto, con riferimento alle società di capitali, due ipotesi di iscrizione d’ufficio della cancellazione nel registro delle imprese, una delle quali si verifica nel caso di mancanza di un’attività liquidativa: il mancato deposito del bilancio in fase di liquidazione (ex art. 2490, I O comma, c.c.) per tre anni consecutivi determina, ai sensi dell’art. 2490, 6° comma, c.c., l’obbligo per l’ufficio del registro delle imprese di provvedere alla iscrizione della cancellazione della società «con gli effetti previsti dall’art. 2495 c.c.» (8) Inoltre, ai sensi dell’art. 223 quater, 2° comma disp. att., nel caso di iscrizione della società nel registro delle imprese avvenuta senza l’autorizzazione di cui all’art. 2329, numero 3), c.c. l’autorità competente al rilascio di tale autorizzazione può proporre istanza per la «cancellazione della società dal registro»; tuttavia, nel caso di accoglimento dell’istanza da parte del tribunale, si applica l’art. 2332 c.c., e quindi la procedura da seguire per il caso di nullità della società. Sembra quindi che la norma si esprima in realtà impropriamente e non regoli direttamente un’ipotesi di estinzione in seguito all’iscrizione della cancellazione, bensì di scioglimento della società (9), con nomina dei liquidatori da parte del tribunale (art. 2332, 4° comma, c.c.) e successiva liquidazione ed estinzione (10)

A queste disposizioni hanno fatto seguito:
– il d.p.r. n. 247 del 23 luglio 2004, che, con riferimento alle società di persone, ha previsto (all’art. 3) l’avvio del procedimento (definito) di cancellazione della società qualora si verifichi una delle cinque ipotesi stabilite in tale articolo 11, previa audizione degli amministratori ed eventuale nomina del liquidatore da parte del Presidente del Tribunale; già la dottrina 12 ha evidenziato le peculiarità di questo  decreto, che (solo per fare un esempio) considera la mancata ricostituzione dei soci nel termine di sei mesi una causa di apertura del procedimento d’ufficio di cancellazione (e non di scioglimento e liquidazione). Anche in questo caso – come in quello già menzionato, dell’art. 223 quater, 2° comma, disp. att. – può ritenersi che il d.p.r. preveda in realtà un procedimento d’ufficio di apertura della liquidazione con conseguente cancellazione all’esito del procedimento 13;
– la norma dell’art. 1, III° comma, Ln.296 del 2006 (legge finanziaria), che prevede la cancellazione delle società di comodo ai fini di fruire della disciplina fiscale di favore;
– infine, introdotto dalla legge di riforma del diritto fallimentare del 2006, l’art. 118, 2° comma, I. fall. prevede l’iscrizione automatica della cancellazione nel registro delle imprese della società in caso di chiusura del fallimento. La norma, già si era sottolineato in dottrina 14, doveva es­ sere interpretata restrittivamente (nel senso che il curatore potesse procedere all’iscrizione della cancellazione solo quando ve ne fossero i presupposti: ad es. per mancanza di attivo); altrimenti – sulla base della lettera della disposizione – si sarebbe giunti all’assurda conclusione di dover disporre sempre automaticamente l’estinzione della società, anche qualora la chiusura del fallimento fosse derivata dal soddisfacimento integrale dei creditori o dalla mancanza di domande di ammissione al passivo. Nel senso auspicato si è poi espresso il d.lgsl. n. 169 del 2007, che ha specificato nel testo della norma che solo in caso di ripartizione finale dell’attivo o di mancanza di quest’ultimo il curatore deve chiedere l’iscrizione della cancellazione.