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Questioni in tema di aumento del capitale “delegato agli amministratori” nella s.r.l.

SOMMARIO: 1. Introduzione: le novità in materia di aumento del capitale sociale nella s.r.l. e la disciplina dell’aumento «delegato» agli amministratori negli altri ordinamenti europei. – 2. L’attribuzione della decisione di aumento del capitale sociale agli amministratori: la tesi prevalente favorevole a configurare un’ipotesi di delega ex art. 2443 c.c. – 3Critica alla tesi prevalente. Diversità della disciplina dalla s.p.a., autonomia statutaria e organizzazione corporativa nella s.r.l. – 4. (Segue): traslazione di competenza, delega in senso stretto e delega tecnica: conseguenze applicative. – 5. Attribuzione agli amministratori della facoltà di aumentare il capitale sociale mediante imputazione di riserve. Mancata indicazione dell’ipotesi nel testo della clausola.

1. Introduzione: le novità in materia di aumento del capitale sociale nella s.r.l. e la disciplina dell’aumento «delegato» agli amministratori negli altri ordinamenti europei. – La disciplina dell’aumento del capitale sociale a pagamento è stata modificata dalla riforma del diritto societario, per quanto riguarda la s.p.a., in particolare con riferimento a due aspetti: da un lato, è stato aggiunto un nuovo caso di esclusione o non spettanza del diritto di opzione per le società con azioni quotate sui mercati regolamentati (art. 2441, comma 4°, seconda parte, c.c.); dall’altro è stato ampliato il possibile contenuto della delega all’organo amministrativo, che può ora comprendere anche la decisione concernente l’esclusione o la limitazione del diritto di opzione1.
Costituisce invece una (integrale) novità la previsione di una disciplina autonoma e organica dedicata all’aumento del capitale nella s.r.l. 2: gli artt. 2481, 2481 bis e 2481 ter c.c. prevedono infatti un’articolata normativa in luogo del previgente art. 2495 c.c. Quest’ultima disposizione, come è noto, si limitava a rinviare a parte della disciplina della s.p.a., e sulla base del contenuto di tale rinvio si potevano ritenere acquisiti (anche se con qualche voce contraria) i seguenti prìncipi: da un lato la delibera di aumento del capitale sociale a pagamento doveva attribuire ai soci il diritto di sottoscrivere il nuovo capitale, con la sola eccezione dell’aumento del capitale da liberare mediante conferimenti in natura, in cui si ammetteva l’esclusione ex lege del diritto di opzione 3 (e – secondo alcuni – del caso in cui vi fosse una specifica clausola statutaria, inserita all’unanimità, che consentisse l’esclusione del diritto di opzione in ulteriori ipotesi 4; d’altro lato non poteva essere delegata agli amministratori la facoltà di aumentare il capitale sociale, in virtù (così la Relazione al Re, n. 1019) dell’eccezionalità dell’istituto della delega e delle caratteristiche rivestite dalla s.r.l., e in particolare per la più diretta partecipazione dei soci alla gestione della società nonché per l’assenza di esigenze di pronta reazione ad istanze del mercato dei capitali5. Si affermava altresì, con riferimento a questi ultimi aspetti, che il divieto di delega agli amministratori costituisse uno dei pochi casi in cui il legislatore della s.r.l. aveva stabilito una norma imperativa non per la presenza di interessi pubblici da tutelare, ma per ragioni tipologiche 6.
Orbene: i prìncipi considerati pacifici dalla dottrina prevalente risultano entrambi ribaltati dalla riforma del diritto societario, in quanto da un lato è prevista – senza apparenti limiti – la possibilità di escludere o limitare il diritto di sottoscrizione dei soci (art. 2481 bis c.c.); d’altro lato è consentito attribuire all’organo amministrativo la facoltà di aumentare il capitale sociale (art. 2481 c.c.).
Con riferimento a quest’ultimo aspetto – il solo sul quale sarà incentrata la presente indagine – si noti fin da subito che si tratta di una norma che ha già sollevato interrogativi (oltre che in dottrina, che ha dubitato della sua giustificazione 7 nella giurisprudenza e nella prassi italiana 8; nonché è stata oggetto di

analisi da parte di un Collegio arbitrale presieduto dal Maestro cui questo scritto
è dedicato9. Del resto una disposizione siffatta non trova (o trovava) paralleli negli ordinamenti tradizionalmente considerati più vicini.
Infatti né la legge spagnola, né quelle svizzera, portoghese o belga contengono un’espressa previsione relativa alla delega agli amministratori dell’aumento del capitale nella s.r.l. Per lo più, e inversamente, tale facoltà viene esclusa, in considerazione (alla stesso modo di quanto si sosteneva nel vigore della precedente disciplina italiana) delle caratteristiche tipologiche e del ruolo dell’assemblea nella società a responsabilità limitata.
In particolare, la Ley de Sociedades de Responsabilidad Limitada spagnola stabilisce che l’aumento del capitale sociale può essere deciso solo dalla Junta General (art. 76), che ha in materia una competenza esclusiva10. Si esclude altresì la possibilità di attribuire agli amministratori una delega tecnica, volta ad integrare il contenuto della decisione assembleare11. L’unico ruolo attribuito all’organo gestorio è quello di poter offrire le quote non sottoscritte ai terzi qualora i soci non abbiano esercitato né il diritto di sottoscrizione né il diritto di prelazione sull’inoptato (c.d. terzo giro)12. Analogamente la dottrina svizzera ritiene che il rinvio contenuto nella nuova disciplina della GmbH (rinvio alla sola disciplina dell’AG concernente l’aumento ordinario del capitale) costituisca un «qualifiziertes Schweigen», tale da escludere la possibilità di delega dell’operazione all’organo amministrativo13. Analoga è la posizione nell’ordinamento belga14. L’art. 266 del Código das Sociedades Comerciais portoghese, infine, prevede un rinvio alle norme in tema di s.p.a. relative alla facoltà per l’assemblea dei soci di limitare o sopprimere il diritto di opzione nonché alla facoltà di attribuire all’organo amministrativo la delega ad aumentare il capitale sociale; il rinvio sembrerebbe consentire non solo la delega di quest’ultima decisione, ma anche di quella relativa all’esclusione del diritto di opzione15. Tuttavia la dottrina è concorde nel ritenere che le modifiche del contratto sociale sono nelle sociedades por quotas di esclusiva competenza dei soci, sicché pare da escludere la possibilità di delegare agli amministratori l’aumento del capitale (e a maggior ragione l’esclusione del diritto d’opzione)16.
Anche la dottrina tedesca, d’altro lato, riteneva che nella GmbH l’aumento di capitale delegato (o, più correttamente secondo quell’ordinamento, autorizzato) fosse illegittimo, per violazione dell’inderogabile competenza assembleare17, nonché in ogni caso superfluo, data la facilità della convocazione dell’assemblea in tale tipo di società18; anche se non si escludeva che l’assemblea potesse autorizzare l’amministratore, altrimenti incompetente, a procedere alla raccolta delle sottoscrizioni degli eventuali terzi entro un periodo massimo di sei mesi (una volta che, sulla base della delibera dell’assemblea dei soci, fosse stata decisa l’esclusione del diritto di opzione)16. La disciplina è, tuttavia, di…

Commento agli artt. 2438-2444

Art. 2438
Aumento di capitale

Un aumento di capitale non può essere eseguito fi no a che le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate.
In caso di violazione del precedente comma, gli amministratori sono solidalmente responsabili per i danni arrecati ai soci ed ai terzi. Restano in ogni caso salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione del precedente comma.

Commento di MARCO SPERANZIN

1. PRECEDENTE DISCIPLINA. – LE NOVITÀ DELLA NORMA. – 2. LA RATIO DELLA NORMA E IL COORDINAMENTO CON L’ART. 2420-BIS C.C. – 3. IL PRIMO COMMA: L’AMBITO DI OPERATIVITÀ DEL DIVIETO… – 4. …E LE FATTISPECIE CONSENTITE. – 5. IL SECONDO COMMA: LA SALVEZZA DELLE SOTTOSCRIZIONI E LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI. – 6. DELIBERA DI AUMENTO DEL CAPITALE IN PRESENZA DI PERDITE.

1. Precedente disciplina. Le novità della norma
La formulazione dell’art. 2438 c.c., prima della modifica del 2003, disponeva che non potessero emettersi nuove azioni fi no a che le azioni precedentemente emesse non fossero state interamente liberate. Si trattava di una disposizione che riproduceva una norma del codice di commercio del 1882 e che non era stata modificata dal d.p.r. 10.2.1986, 30, ossia dal provvedimento di attuazione della II Direttiva CE, in quanto quest’ultima non si occupa dei presupposti dell’aumento di capitale.
Il dibattito sull’ambito applicativo dell’art. 2438 c.c. si era concentrato sull’ammissibilità o meno dell’assunzione di una delibera di aumento da parte dell’assemblea in mancanza di integrale liberazione delle azioni precedentemente emesse. Secondo la tesi prevalente, anche se non pacifica, la disposizione impediva non solo di eseguire un aumento di capitale, ma anche di deliberarlo nel caso in cui fossero state sottoscritte azioni non interamente liberate o potessero essere sottoscritte, in forza di una delibera assunta ma ancora inattuata, azioni senza contestuale integrale liberazione1.
La legge delega al Governo per la riforma del diritto societario (l. 3.10.2001, 366) non forniva al legislatore delegato particolari indirizzi in materia, limitandosi a stabilire (art. 4, c. 9, lett. b) la revisione della disciplina dell’aumento del capitale. Tuttavia l’introduzione del nuovo testo dell’art. 2438 c.c. era stata preceduta dall’abrogazione della fattispecie penale dell’art. 2630, c. 1, n. 1, c.c., che sanzionava gli amministratori che emettono nuove azioni o attribuiscono nuove quote prima che quelle sottoscritte precedentemente siano state interamente liberate2.
La nuova disposizione prevede ora al c. 1 che un aumento di capitale non può essere eseguito finché le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate; al c. 2 specifica che gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione della norma restano salvi, ferma la responsabilità solidale degli amministratori nei confronti dei soci e dei terzi per i danni arrecati.

2. La ratio della norma e il coordinamento con l’art. 2420-bis c.c.
La ratio dell’art. 2438 c.c. è ricondotta dalla tesi prevalente, seppur con diverse sfumature, ad un generale sfavore verso la costituzione di un patrimonio formato da crediti nei confronti dei soci (crediti che potrebbero risultare di difficile realizzazione), al fi ne di garantire un equilibrato ricorso alle fonti di finanziamento, nonché al fi ne di impedire abusi da parte dell’organo amministrativo e dei soci di maggioranza3; si intende soprattutto evitare che la società proponga un’immagine falsa della propria situazione finanziaria sollecitando nuove operazioni sul capitale4.
La norma, come modificata dalla riforma, attenua la portata del divieto in quanto consente ora di deliberare un aumento di capitale, ossia di programmare la raccolta delle sottoscrizioni, anche quando il precedente aumento di capitale sia stato eseguito, ma non interamente liberato5. L’organo amministrativo ha il dovere di non dare esecuzione alla delibera fino a che le azioni precedentemente emesse non siano interamente liberate.
L’interpretazione è confermata dalla corrispondente norma in materia di s.r.l., l’art. 2481, c. 2, c.c. (che vieta l’attuazione della decisione di aumento del capitale in presenza di un precedente aumento non completamente liberato). Non è stata invece modificata la disposizione in tema di emissione di obbligazioni convertibili (art. 2420-bis c.c.), che continua a prevedere che la deliberazione di emissione del prestito convertendo non può essere adottata se il capitale sociale non è stato integralmente versato. Si tratta, secondo la tesi prevalente, di un difetto di coordinamento. Già prima della riforma si giungeva, da parte della dottrina e con riferimento alla delibera ex art. 2420-bis, c. 1, prima parte, c.c., alla conclusione ora prevista dal nuovo art. 2438 c.c. (divieto di eseguire la delibera)6; inoltre il divieto ex art. 2420-bis, c. 1, prima parte, c.c. è finalizzato a impedire l’elusione, attraverso l’emissione di un prestito obbligazionario convertibile, degli stessi interessi tutelati dall’art. 2438 c.c.7. Il mancato coordinamento tra la norma in commento e l’art. 2420-bis, c. 1, prima parte, c.c. può essere quindi risolto in via sistematica dall’interprete: anche l’aumento di capitale a servizio del prestito e, secondo alcuni, l’emissione delle obbligazioni possono essere deliberati nel caso in cui il capitale sociale non risulti interamente versato, fermo restando il divieto di esecuzione della delibera (e quindi, ad es., il divieto di emettere i titoli, ossia obbligazioni convertibili o warrant)8.
Secondo altri, invece, tale disposizione vieta la stessa delibera di aumento (e la contestuale decisione di emissione delle obbligazioni), in quanto la protezione dell’obbligazionista come creditore (fi no al momento della conversione) deve essere più incisiva rispetto a quella del sottoscrittore di un aumento del capitale9; del resto la società non può limitarsi a deliberare l’aumento del capitale sociale e la contestuale emissione delle obbligazioni, perché nel caso dell’art. 2420-bis c.c. – a differenza dell’art. 2438 c.c. – l’organo amministrativo non ha il potere-dovere di attendere a dare esecuzione all’aumento (al servizio della conversione) fi no all’integrale liberazione delle azioni precedentemente emesse: gli obbligazionisti, infatti, hanno il diritto di convertire le obbligazioni alle scadenze previste dal regolamento del prestito, e la società non può rifiutare l’emissione delle relative azioni.
In ogni caso, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 2438 c.c., la clausola comunemente inserita nei verbali assembleari di aumento del capitale, secondo cui il presidente dell’assemblea attesta che il capitale sociale risulta interamente sottoscritto e versato, appare utile (sebbene non è più necessaria per la deliberazione assembleare), perché chiarisce che il nuovo aumento di capitale risulta immediatamente eseguibile10.

3. Il primo comma: l’ambito di operatività del divieto…
La norma impedisce l’esecuzione di un aumento di capitale quando le azioni precedentemente emesse non risultano interamente liberate, ossia quando non è stato versato l’intero conferimento in danaro11.
Innanzitutto risulta opportuno distinguere emissione delle azioni ed esecuzione dell’aumento del capitale. La prima individua il momento in cui viene creata la partecipazione sociale (v. anche art. 2346 c.c.), momento che, dal punto di vista del rapporto società-socio e come si vedrà nel commento all’articolo seguente, coincide con la sottoscrizione (di una parte) dell’aumento del capitale; la sottoscrizione vincola colui che la esegue e la società, e costituisce la «causa» della creazione della partecipazione azionaria, che può poi (eventualmente) concretizzarsi in un titolo azionario12.
Un’interpretazione diversa, che distingua la sottoscrizione dell’aumento di capitale, intesa come nascita del vincolo tra sottoscrittore e società, rispetto all’emissione delle azioni, intesa come creazione della partecipazione sociale, potrebbe sostenersi sulla base di un argomento strettamente letterale, ossia osservando che il secondo comma della norma in commento stabilisce che «restano…salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione del precedente comma». Potrebbe quindi sostenersi che la norma pone un vincolo solo nei casi in cui vi sia stata o vi debba essere l’emissione materiale dei titoli azionari, al fi ne di tutelare la circolazione in forma cartolare.
Al di là dei significati che può assumere, nelle diverse disposizioni normative, il termine «emissione» delle azioni13, l’interpretazione letterale proposta non appare convincente, in virtù delle diverse modalità di rappresentazione delle partecipazioni azionarie ex art. 2355 c.c. (emissione o meno dei titoli azionari; azioni dematerializzate), che non paiono giustificare (almeno nel caso della circolazione dei titoli e delle azioni dematerializzate) una conclusione diversificata, che renda applicabile solo nel caso dei titoli l’art. 2438 c.c.; e in virtù dell’osservazione che il legislatore ha considerato come ipotesi ordinaria la correlazione tra partecipazione azionaria e rappresentazione cartolare della stessa, come confermano numerose norme (in primo luogo l’art. 2346 c.c., ma v. anche gli artt. 2354, 2355 e 2437-bis, c. 2, c.c.)14. Inoltre la ratio dell’art. 2438 c.c. non è (o almeno non è solo) diretta ad impedire una circolazione dei titoli azionari non interamente liberati15. L’azione rileva dunque, ai fini della norma in esame, come partecipazione sociale e non come titolo rappresentativo.
Più complesso appare stabilire cosa significhi il divieto di esecuzione del secondo aumento di capitale e a quali attività di attuazione della delibera questo divieto si estenda. Una volta che l’assemblea (o l’organo amministrativo delegato ex art. 2443 c.c.) ha deliberato il secondo aumento di capitale, e una volta che tale delibera risulta iscritta nel registro delle imprese16, non è chiaro infatti se, in presenza di un precedente aumento non interamente liberato, sia preclusa ogni tipo di attività esecutiva, oppure se vi sia qualche spazio per attività strumentali alla realizzazione della fattispecie di aumento del capitale.
La dottrina che si è occupata finora dell’argomento è orientata a ritenere che non si possa procedere alla raccolta delle sottoscrizioni dell’aumento di capitale, che perfezionano immediatamente il vincolo tra la società e gli aderenti17. Risulta pertanto necessario distinguere tra aumento del capitale con diritto di opzione a favore dei soci e con esclusione del diritto di opzione. Nel primo caso l’esecuzione inizia con la pubblicazione dell’offerta ai sensi dell’art. 2441, c. 2, c.c.: non è consentita l’iscrizione nel registro delle imprese dell’avviso di opzione relativamente al secondo aumento di capitale (altrimenti la società non potrebbe rifiutare la sottoscrizione delle nuove partecipazioni); nel secondo caso l’esecuzione inizia con la sottoscrizione da parte dei terzi individuati dagli amministratori.
Poiché la ratio della norma viene collegata alla necessità di garantire un equilibrato ricorso alle fonti di finanziamento e di impedire abusi da parte dell’organo amministrativo e dei soci di maggioranza, non sembra invece possa costituire esecuzione in senso tecnico la pubblicità della delibera di aumento del capitale («omologazione» notarile e iscrizione nel registro delle imprese), che costituisce solamente un adempimento necessario per l’efficacia della delibera18, così come non costituisce esecuzione in senso tecnico tutto ciò che riguarda la concretizzazione della delibera di aumento di capitale programmato, quale, ad esempio, l’eventuale ricerca dei sottoscrittori (nel caso di aumento con esclusione del diritto di opzione), oppure l’eventuale delibera dell’organo amministrativo che richieda che la futura (ed eventuale) sottoscrizione del nuovo aumento debba rivestire una determinata forma o sia accompagnata da determinati adempimenti materiali19.
Maggiormente dubbia è invece la possibilità di procedere alla raccolta di sottoscrizioni subordinate all’integrale liberazione delle azioni emesse sulla base del o dei precedenti aumenti di capitale, in quanto tale raccolta costituisce indubbiamente esecuzione della delibera e poiché si porrebbe altrimenti in pericolo uno degli obiettivi che la norma vuole impedire (possibili abusi nella gestione della formazione del capitale sociale e della base azionaria della società).

4. …e le fattispecie consentite
In forza di tali considerazioni, in base al nuovo testo dell’art. 2438 c.c. potrà sempre deliberarsi un nuovo aumento del capitale, e quindi, ad esempio: quando le azioni emesse in relazione al precedente aumento di capitale sono state interamente liberate; quando le azioni relative al precedente aumento, pur se sottoscritte, non risultano interamente liberate (ossia è stato versato solo il venticinque per cento o comunque non il cento per cento del conferimento in danaro); quando la delibera relativa all’aumento di capitale precedente risulta ancora inattuata; quando il termine di sottoscrizione relativo ad una precedente delibera non sia ancora decorso; quando è stato deliberato un precedente aumento di capitale con attribuzione di opzioni contrattuali ( warrant) per la sottoscrizione di azioni di nuova emissione20.
Tuttavia la società potrà procedere alla esecuzione della seconda delibera di aumento solo quando le azioni emesse in relazione al precedente aumento di capitale sono state interamente liberate, oppure quando la delibera relativa all’aumento di capitale precedente, ancora completamente inattuata, verrà eseguita successivamente (ad esempio: il primo aumento del capitale è al servizio di un’emissione di obbligazioni convertibili) o dispone che le azioni devono essere interamente liberate contestualmente alla sottoscrizione, in quanto in quest’ultima ipotesi manca il presupposto di operatività del divieto di legge,

Partecipazioni senza diritto di voto nella s.r.l.

SOMMARIO: 1. Introduzione: la discussa legittimità di partecipazioni senza diritto di voto. – 2. Limiti assoluti che impediscono la creazione di quote senza voto: il diritto di voto come elemento essenziale del tipo? – 3. (Segue). Ulteriori argomenti contrari: la “natura” della partecipazione sociale nella s.r.l. o la disciplina dell’art. 2351 c.c. – 4. (Segue). Presunti argomenti letterali contrari alla legittimità di tali partecipazioni. – 5. Limiti relativi alle quote senza voto (cenni).

1. Introduzione: la discussa legittimità di partecipazioni senza diritto di voto.
Nel sistema normativo della s.r.l. anteriore alla riforma del 2003 era principio consolidato che non fossero ammissibili quote senza diritto di voto né quote a voto limitato1. La tesi era fondata in primo luogo sul tenore letterale dell’art. 2485 c.c. previgente, che da un lato attribuiva ad ogni socio il diritto ad almeno un voto nell’assemblea, dall’altro non conteneva alcuna indicazione, a differenza degli articoli precedente e seguente, che facesse salva una diversa disposizione dell’atto costitutivo; in secondo luogo sulla mancanza nella s.r.l. di una disposizione corrispondente all’art. 2351 c.c. in tema di s.p.a.; infine su una ragione tipologica, ossia sulla normale presenza nella s.r.l. di soli soci imprenditori, necessariamente in grado di partecipare, almeno in potenza, alla vita della società.
Fortemente discussa era, invece, l’ammissibilità di quote a voto plurimo, da alcuni respinta sulla base dello stesso art. 2485 c.c. o sulla base dell’applicazione analogica dell’art. 2351, comma 3°, c.c. previgente 2; da altri accolta sulla base di considerazioni tipologiche: veniva considerata coerente con il tipo s.r.l. la possibilità di variare la misura delle posizioni soggettive in relazione all’importanza che ciascun socio potesse rivestire per la collettività 3.
Il problema (o i problemi) si presenta(no), dopo l’entrata in vigore della riforma, con connotati nuovi. Le disposizioni novellate rendono l’analisi del tema quanto mai stimolante (si pensi al nuovo art. 2468 c.c., che riconosce la legittimità di un’attribuzione dei diritti non proporzionale ai conferimenti, nonché la possibilità di assegnare a uno o più soci diritti particolari); inoltre l’instabilità del quadro sistematico della s.r.l. comporta che princìpi pacifici prima della riforma, e che erano alla base di soluzioni consolidate, possano risultare non più tali 4.
E proprio in conseguenza di questo quadro le opinioni sul tema risultano ora più articolate rispetto al passato. Da un lato, e in prevalenza, è rappresentata una tesi negativa, la quale si esprime in senso contrario alle quote senza voto o con diritto di voto limitato. In primo luogo, si conferisce rilievo al dato normativo: in particolare all’art. 2479, comma 5°, c.c. («ogni socio ha diritto a partecipare alle decisioni previste dal presente articolo e il suo voto vale in misura proporzionale alla sua partecipazione»); e all’art. 2468, comma 3°, c.c., che disciplina i diritti particolari, da interpretarsi come numerus clausus, e che non menziona – tra i diritti che possono essere attribuiti in modo non proporzionale rispetto alla partecipazione – quello di voto 5. In secondo luogo, la tesi negativa viene fondata (analogamente al passato) su considerazioni di vertice e tipologiche, e quindi sul ruolo del socio nella s.r.l. (che deve partecipare, almeno in potenza, alla vita societaria) 6; oppure sulla base dell’art. 2247 c.c., che, in assenza di una disposizione permissiva come quella dell’art. 2351, comma 2°, c.c., non consentirebbe una clausola statutaria che privi il socio del diritto di voto e quindi escluda la sua partecipazione alla gestione dell’attività comune 7.
D’altro lato non mancano autori che si sono espressi a favore della legittimità di quote senza voto o a voto limitato, in particolare argomentando dalla possibilità, prevista in generale all’art. 2468, comma 2°, c.c., di assegnare ai soci la quota di partecipazione al capitale (e quindi ai diritti sociali) in modo non proporzionale rispetto ai conferimenti; nonché in considerazione dell’ampia autonomia statutaria riconosciuta quale carattere distintivo alla s.r.l. 8.
A fronte di questo quadro così composito, appare interessante dedicare al tema un approfondimento, anche alla luce dell’importanza che hanno le quote senza voto in altri ordinamenti 9, e dell’ammissibilità di tali partecipazioni anche nelle recenti proposte di Regolamento relativo allo statuto di una Società privata europea 10.

2. Limiti assoluti che impediscono la creazione di quote senza voto: il diritto di voto come elemento essenziale del tipo? – L’analisi concernente l’ammissibilità di quote senza diritto di voto nella s.r.l. deve in primo luogo confrontarsi con l’esistenza, o meno, di limiti c.d. assoluti che, in ipotesi, potrebbero rendere illegittima una previsione dell’atto costitutivo in questo senso 11; in particolare, sulla base degli argomenti ricordati al paragrafo precedente, il principio della rilevanza centrale del socio o della necessaria partecipazione di quest’ultimo alla gestione dell’attività comune.
L’illegittimità di quote senza diritto di voto potrebbe derivare, seguendo questo ragionamento, da un esame della disciplina complessiva della s.r.l. la quale, come noto, attribuisce rilievo centrale al ruolo del socio, da considerarsi quale vero e proprio «socio imprenditore», o della partecipazione sociale, caratterizzata da una serie di diritti amministrativi (ad esempio: il diritto di controllo; di impugnazione; e, in thesi, anche di voto) da ritenersi indisponibili; in secondo luogo, l’inammissibilità sarebbe desumibile dal confronto con la disciplina della s.p.a., la quale (sola) consentirebbe l’attribuzione di partecipazioni senza diritto di voto, in virtù della possibilità di permettere l’investimento in tale tipo anche a soggetti non interessati alla gestione della società.
Il primo argomento, sostenuto anche in altri ordinamenti 12, pare superabile non solo con le obiezioni che, in senso critico, si potrebbero immediatamente muovere allo scopo di negare rilievo al ruolo centrale del socio: il principio è privo di reale portata precettiva, e comunque è posto sullo stesso piano di quello della tutela dei rapporti contrattuali tra i soci 13; la natura imprenditoriale del socio è un mero slogan, dato che il socio non viene considerato tale neppure nelle società di persone 14, almeno in senso proprio 15; in ogni caso, il regime della s.r.l. è «assai poco adatto ad una struttura caratterizzata dalla presenza esclusiva o comunque prevalente di “soci imprenditori”» 16.
L’argomento pare superabile soprattutto con una considerazione altrettanto di vertice; ossia la distinzione, sia dal punto di vista formale che dal punto di vista sostanziale, da un lato tra il diritto di voto del socio e quello alla partecipazione alla decisione (diritto di intervento; di informazione e di ispezione; di impugnazione); d’altro lato tra il diritto di voto e il diritto a prestare il consenso individuale per determinate decisioni (distinzione che in Germania è efficacemente indicata con i termini Stimmrecht e Zustimmungsrecht 17). Un conto è, infatti, il diritto del socio a partecipare con la sua manifestazione di volontà alla formazione della decisione sociale, altro è il diritto di intervenire alle decisioni ed eventualmente impugnarle, pur senza poter esprimere il diritto di voto (distinzione tra diritto di voto e di partecipazione alla decisione); un conto è il diritto di esprimere il consenso o approvare una decisione, quando la volontà della collettività incide sul contenuto di alcuni diritti indisponibili del socio, altro è il diritto di votare in ogni decisione (distinzione tra diritto al consenso e diritto di voto) 18. Orbene: le quote senza diritto di voto escludono quest’ultimo, non, invece, il diritto a partecipare ad ogni decisione (ed eventualmente ad impugnarla); non eliminano il diritto del socio, in certi casi, ad esprimere il suo (necessario) consenso per la (efficace o valida) assunzione di determinate decisioni che incidono su diritti indisponibili.
Ciò che, sulla base di questa duplice distinzione, deve essere salvaguardato in ogni caso è, quindi, il diritto alla partecipazione ad ogni decisione e al consenso a certe specifiche delibere; si dovrebbe ritenere consentito, invece, l’esclusione convenzionale del diritto di voto, allo scopo di equilibrare il rapporto tra le due…

Le clausole relative all’oggetto “indiretto” (il patrimonio sociale) garanzie sintetiche e garanzie analitiche

SEZIONE I

LE CLAUSOLE RELATIVE ALL’OGGETTO INDIRETTO IN GENERALE

SOMMARIO: 1. Le clausole patrimoniali-reddituali e la loro funzione – 2. La distinzione delle clausole dal punto di vista della loro formulazione: clausole di rappresentazione e clauso­le di garanzia – 3. La qualificazione delle clausole e conseguenze in tema di disciplina – 4. (Segue): ulteriori effetti dal punto di vista del contratto – 5. Le garanzie prestate in occa­sione dell’aumento del capitale sociale

1. Le clausole patrimoniali-reddituali e la loro funzione
Nozione:
Il corpo centrale del contratto di acquisizione è normalmente costituito dalle clausole patrimoniali-reddituali, ossia le pattuizioni (spesso deno­minate anche, con la terminologia degli ordinamenti da cui derivano, e con un vero e proprio legal transplant, quali business warranties1) con cui il compratore richiede che il venditore rappresenti una determi­nata situazione del patrimonio  della società oggetto dell’acquisizio­ne, e garantisca determinate caratteristiche di tale patrimonio, che variano a seconda del tipo di società e dell’attività da questa svolta2. L’ac­quirente ben difficilmente riesce ad essere, al momento della sottoscri­zione del contratto, dettagliatamente informato circa il reale oggetto del­ l’acquisizione, in particolare in considerazione della complessità del bene compravenduto (v. in merito alla due diligence i Capitoli IV e V); ri­chiede, pertanto, di ricevere una determinata protezione contrattuale in merito allo stato del patrimonio sociale risultante dalla gestione svolta (direttamente o indirettamente) dall’alienante, e, a volte, in merito alle prospettive reddituali dell’impresa.

Funzione:
Le clausole in esame hanno la fondamentale funzione di tutelare l’acqui­rente in considerazione dell’indirizzo, sicuramente prevalente in dottrina e in giurisprudenza, circa l’oggetto del contratto di acquisizione (v. il Ca­pitolo I). Il compratore, infatti, non può invocare, in mancanza di tali clau­sole, e salvo casi eccezionali o particolari, una tutela relativa alla consi­stenza del patrimonio sociale nel caso in cui questo risulti di valore infe­riore da quello prefigurato e presupposto; pertanto, l’inserimento di tali clausole nel contratto diviene fondamentale qualora voglia essere garan­tito su certe caratteristiche dell’azienda (ad esempio: che sussistano certi diritti di proprietà industriale e intellettuale; che non si verificheranno so­pravvenienze passive fiscali imputabili alla gestione del venditore; ecc.). D’altro lato, un effetto analogo a quello previsto dalle pattuizioni di rappresentazione e garanzia può essere raggiunto anche attraverso la previsione di una clausola di differimento del pagamento  del  prezzo (o di variabilità del medesimo: (v. il Capitolo XIII). Tuttavia, non è infre­quente che uno dei contraenti non accetti tale formulazione (ad esempio: il venditore pretende il pagamento immediato, ai fini di evitare di lasciare all’acquirente, che ha la gestione dell’impresa, la possibilità di influenzare la determinazione dell’aggiustamento del prezzo). Inoltre, la clausola re­lativa alla successiva fissazione del corrispettivo comporta spesso pro­blemi relativi al soggetto a ciò competente (rapporto tra clausole arbitra­ li e di arbitraggio: v. i Capitoli XXVII e XXVIII). In ogni caso, la successiva determinazione del prezzo produce un effetto diverso rispetto alle clau­sole di garanzia, in quanto incide sulla prestazione del compratore e non prevede, invece, un ulteriore obbligo a carico del venditore (e quindi, tale configurazione contrattuale richiede molta attenzione con riferimento, ad esempio, all’applicazione dei termini di decadenza o dei tetti e delle franchigie, che sono di norma previsti per le clausole di garanzia; o alla possibile applicazione di strumenti di tutela diversi: v. infra).
Non desta quindi sorpresa che, alla luce dell’orientamento prevalente in merito all’oggetto dell’acquisizione, il corpo centrale del contratto di acquisizione, e la sua parte più rilevante, sia dal punto di vista dell’ampiezza che dal punto di vi­ sta della difficoltà nella negoziazione, risulti costituito dalle clausole menziona­ te. Anche la giurisprudenza, fin almeno dal 1967, evidenzia l’importanza per l’acquirente dell’inserimento nel contratto di apposite pattuizioni al fi­ ne di ottenere una tutela relativa alla consistenza del patrimonio sociale. La Su­ prema Corte, infatti, ha statuito che in mancanza di tali garanzie contrattuali il compratore non può invocare tale tutela, e ha osservato che le parti predi­ spongono negli accordi una fitta di rete di clausole a carico del venditore, che è anche la parte più vicina alla fonte delle informazioni necessarie per valutare la convenienza dell’affare3.
Sovente le pattuizioni di rappresentazione e garanzia contenute nei con­ tratti di acquisizione vengono, a loro volta, inserite mutatis mutandis o con modifiche anche nei  contratti  di finanziamento  tra il compratore e gli istituti di credito.

2. La distinzione delle clausole dal punto di vista della loro formulazione: clausole di rappresentazione e clau­sole di garanzia
Tipo di clausole:
Come si accennava, i contratti di acquisizione normalmente contengono due tipi di clausole patrimorùali-reddituali4: con le prime il venditore esprime determinate dichiarazioni in merito all’effettivo stato del patri­monio sociale o dell’azienda al momento della conclusione del contratto, o in relazione alla gestione precedente dell’impresa (c.d. clausole di rappresentazione, o sempre utilizzando la terminologia inglese, repre­sentations o declarations); con le seconde, il venditore e l’acquirente ga­rantiscono, e quindi (come si vedrà infra in questo paragrafo) assicura­ no che si verificheranno, o meno, determinati eventi, assumendo, in tal caso, l’obbligo di corrispondere un indennizzo (c.d. garanzie o warran­ties). La distinzione tra i due tipi di clausole5, sebbene spesso svalutata co­ me meramente descrittiva, ha importanti conseguenze dal punto di vista della disciplina applicabile. Anche la giurisprudenza, del resto, sembra at­tribuire, nelle più recenti decisioni, una certa rilevanza a tale distinzione6.

Le clauso­le di rappresentazione   
Le prime pattuizioni, come si diceva, consistono in attestazioni circa la sussistenza di un fatto (lo stato del patrimonio sociale al momento della conclusione del contratto, situazione di cui il socio di «controllo» solitamente dovrebbe es­ sere a conoscenza) o espressive di un giudizio presentato come un fatto. Han­ no la funzione di spingere il venditore, prima di rilasciarle, ad analizzare la situazione della società; nonché di rassicurare l’acquirente circa l’opportunità dell’affare. Di norma tali clausole, in quanto inserite nel testo del contratto (spesso in collegamento con clausole di indennizzo o risarcimento) e in virtù del principio dell’art. 1367 c.c. (ossia del principio della conservazione degli effetti), hanno contenuto precettivo, sebbene sia opportuna un’ulteriore distin­zione al fine di comprenderne la disciplina.
Le clausole che si risolvono nell’espressione di giudizi oppure di opi­nioni non sembra possano creare un impegno del dichiarante o un affidamen­to tutelato; tuttavia, possono rilevare sia per l’accertamento di un vizio della vo­lontà dell’acquirente, sia nell’interpretazione di altre clausole (anche quelle che si vedranno in seguito) qualora ambigue (arg. ex art. 1363 c.c.).
Le clausole, invece, che hanno ad oggetto dichiarazioni in merito a fatti o circostanze precise, determinano un impegno e una correlativa responsabilità per la corrispondenza di quanto dichiarato7.
Si pensi, a questo proposito, alle clausole con cui il venditore dichiara che non esistono controversie a carico della società; che non vi sono accertamenti fiscali o previdenziali in corso; che gli immobili della società sono conformi a de­ terminate prescrizioni, ecc.

Gli effetti giuridici della non conformità del patrimonio sociale alla si­tuazione rappresentata nelle clausole di rappresentazione sono molto discussi.
In astratto, infatti, potrebbe ritenersi che la correlativa responsabilità del venditore possa configurarsi (come la giurisprudenza ha talvolta rite­nuto con riferimento alle lettere di patronage) quale responsabilità «pre­contrattuale», oppure extracontrattuale da affidamento. Tuttavia, tali in­terpretazioni non convincono in quanto il venditore assume con la dichia­razione in esame un preciso impegno contrattuale; del resto, la qualifica­ zione responsabilità contrattuale comprende, secondo l’opinione pre­valente, l’inadempimento di qualunque obbligazione, compreso anche l’ob­bligo di comportamento cui devono essere informati atti e fatti giuridici.
La conseguenza di tale interpretazione è che l’alienante si impegna, con la clausola di rappresentazione, ad aver effettuato la dichiarazione con l’oppor­tuna diligenza, e quindi dopo aver svolto i controlli necessari8. Di conseguenza, può esimersi da responsabilità, ai sensi dell’art. 1218 c.c., provando che l’inesattezza o incompletezza di quanto dichiarato sono dipese da causa a lui non imputabile9.

Le clau­sole di garanzia
Ben più forti sono gli effetti del secondo tipo di clausole, che non costi­tuiscono obbligazioni in senso tecnico (intese in termini soggettivo-personalistici di condotta debitoria), ma patti contrattuali che ricollegano al solo mancato verificarsi dell’evento conforme all’interesse della parte ga­rantita il sorgere dell’eventuale obbligazione (da intendersi, in questo ca­so, in senso tecnico) di indennizzo. Con tali clausole, in sostanza, e in mancanza di una formulazione che ne limiti l’applicazione10,  il  garante si assume il rischio del verificarsi, o non verificarsi, di un deter­ minato evento, a prescindere  da un giudizio di imputabilità  o me­ no di una certa condotta, e quindi senza la possibilità di una prova liberatoria ai sensi dell’art. 1218, ult. parte, e.e., e, di conseguenza, di poter invocare, con riferimento al rapporto sinallagmatico, l’art. 1463 e.e.n.

Per fare un esempio: l’alienante si impegna, nel caso in cui garantisca che en­ tro un determinato periodo di tempo non si verificheranno sopravvenienze fi­ scali, ad indennizzare l’acquirente (o la società) per l’importo relativo anche qualora non avesse alcuna conoscenza, né potesse averla, in merito alla cau­sa di tale sopravvenienza12.

La ragione economica di tali impegni è rappresentata dal fatto che, come si accennava, in un’operazione di trasferimento dell’«impresa» il com­pratore non intende assumersi rischi relativi a fatti che trovano causa o titolo nella precedente gestione, ma che possono verificarsi anche dopo molto tempo rispetto alla sottoscrizione del contratto (si pensi, oltre alle menzionate sopravvenienze fiscali, ad ipotesi di responsabilità da pro­ dotto; o ambientale; ecc.); inoltre, egli non intende attribuire rilevanza solo a sopravvenienze di cui il venditore possa essere ritenuto colposa­ mente o dolosan1ente responsabile, ma ad ogni evento relativo alla pre­cedente gestione.

Diritto di sottoscrizione e tutela del socio di s.r.l.

PREFAZIONE
Quest’indagine ha ad oggetto il ruolo del diritto di sottoscrizione e la tutela del socio nella s.r.l.
In tale tipo di società il principale conflitto di interessi non è tra soci e organo amministrativo, ma tra soci di maggioranza e di minoranza. Il socio, infatti, non è di norma un mero investitore, disinteressato alla gestione della società; ha, inversamente, un rilevante interesse a parteciparvi, anche perché il suo investimento nella società non ha la possibilità di essere facilmente liquidato in un mercato delle partecipazioni. La tutela dei diritti e della posizione del singolo socio di s.r.l. risulta, pertanto, di vitale importanza, diversamente da quanto si sostiene con riferimento alle s.p.a., soprattutto aperte, in cui il ruolo dell’azionista assume, di norma, un minore rilievo.

Il diritto societario negli ordinamenti europei prevede anche nelle società c.d. chiuse che, a fronte di un aumento del capitale sociale, le partecipazioni emesse vengano offerte in sottoscrizione al socio, in modo da consentirgli di conservare la sua posizione nella società, soprattutto dal punto di vista amministrativo, ma anche dal punto di vista patrimoniale. Tale diritto può, tuttavia, essere escluso, nell’interesse della società o dei soci, sulla base di presupposti che risultano diversi a seconda dell’ordinamento preso in considerazione, dato che la Seconda Direttiva in materia societaria non riguarda le s.r.l. e, allo stato, il regolamento sulla società privata europea non è stato approvato. La soluzione prescelta dall’ordinamento italiano (v. art. 2481-bis c.c.), a seguito della ricostruzione che si è ritenuta preferibile, è di riconoscere alla posizione partecipativa del socio di s.r.l. una tutela di base rafforzata: il diritto di sottoscrizione può essere escluso solo previo inserimento, con il consenso di tutti i soci, di una clausola nell’atto costitutivo, che si è denominata clausola di apertura. Questa soluzione, che impedisce alla maggioranza di poter modificare liberamente la posizione del singolo, consente al socio di avere uno strumento di negoziazione in merito alla sua partecipazione nella società.

D’altro lato, con riferimento agli spazi riconosciuti all’autonomia statutaria, a disciplina della s.r.l. in tutti gli ordinamenti europei risulta maggiormente flessibile rispetto a quanto previsto in materia di s.p.a., e ciò emerge anche nella disciplina del diritto di opzione.
La Seconda direttiva in materia societaria riconosce agli azionisti, nel caso di aumenti di capitale da sottoscrivere con conferimenti in danaro, tale diritto; esso può essere escluso non in via statutaria e preventiva, ma solo mediante una delibera assembleare al ricorrere di specifici presupposti, e con conseguente attribuzione di strumenti di tutela informativa e patrimoniale (v. in questo senso, nel sistema italiano, l’art. 2441 c.c.).
L’inserimento nell’atto costitutivo della s.r.l. della clausola di apertura consente, invece, che le partecipazioni emesse a fronte di un aumento del capitale sociale possano essere offerte a terzi, con esclusione del diritto di sottoscrizione del socio, anche senza necessaria previa specificazione dei relativi presupposti. Al socio dissenziente rispetto alla decisione è attribuito esclusivamente il diritto di recesso, con conseguente liquidazione della partecipazione sulla base del valore del patrimonio sociale. L’esercizio della libertà contrattuale rende possibile, quindi, una regolamentazione del diritto più flessibile rispetto a quella della s.p.a.

Questa soluzione a due livelli (rafforzamento della posizione del socio garantita dalla disciplina legale/ampia autonomia statutaria con possibilità di prevedere la clausola di apertura) consente un equilibrato contemperamento degli interessi e della libertà di negoziazione dei soci di s.r.l.

PRESENTATION
This book deals with the pre-emption right and the protection of the interests of the members in private limited liability companies (under Italian Civil Code società a responsabilità limitata).
The research starting point is that the main agency conflict in these companies is not among directors and members of the company but among majority and minority shareholders.
Interests in such companies do not have an actual market (the lock-in problem) and therefore members of these companies, generally not passive or dormant investors with a short term perspective, are willing to actively participate to the management of the company. Therefore, rights granted to members of private limited liability companies are of key importance and stronger than those provided for public companies (under Italian Civil Code società per azioni) where instead shareholders’ primacy and powers are reduced.
On the other hand, members of private limited liability companies may rely on a set of rules and rights which are more flexible than those provided for public companies.

EU Second Company Law Directive does not contain any regulation with reference to private limited liability companies, and European law has not introduced yet a legal model for a European private company, while company laws of each European member States set out specific rules, according to which:
– with regard to the right of pre-emption, shares must be offered to members on a pre-emptive basis in proportion to the capital represented by their shares when the capital is increased; in fact shareholders should be able tomaintain the proportion of the subscribed capital and preserve their managerial and financial interest in the company; the rationale is that shareholders cannot be diluted without having the opportunity to subscribe to new equity;
– in relation to the restriction or withdrawal of the right of pre-emption, different regulations apply from country to country.
In relation instead to public companies, the EU Second Company Law Directive provides that the right of pre-emption is mandatory in case the capital is increased by consideration in cash and that the right may not be excluded by the articles of incorporation and by-laws but only by a decision of the general meeting of the company in specific circumstances.

Under Italian law, in case the capital of the company is increased, the pre-emption right can be excluded only by specific clause in the articles of incorporation agreed by all members. The purpose envisaged by Italian law is to ensure to the shareholder has the power to negotiate on its position and role in the company (a bargaining chip).
On the other hand, such clause allows the general meeting to issue shares without previously offering them to the members of the company. This could represents a general or limited disapplication of the pre-emption right (an opt-out solution). If the articles of incorporation provide this clause, the dissenting shareholder has the right to sell its interest to the majority or to be liquidated by the company at a fair market price (exit).
This two-tier solution is balanced and protects both the interests of the members and their contractual freedom.

CAPITOLO PRIMO
AUMENTO DEL CAPITALE E RAPPORTI PARTECIPATIVI

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’aumento del capitale sociale nella s.r.l. – 3. Il diritto di sottoscrizione e la sua esclusione: analisi storica … – 4. Segue. … e di diritto comparato. – 5. Le caratteristiche del diritto di sottoscrizione nell’ordinamento italiano. – 6. Segue. L’esclusione o la limitazione del diritto di sottoscrizione nell’art. 2481-bis c.c. a confronto con gli altri modelli; rilevanza tipologica. – 7. La tutela assoluta del diritto alla conservazione della quota di partecipazione del socio: apporto con il principio di libera circolazione delle partecipazioni sociali. – 8. Segue. Diritto alla conservazione della quota di partecipazione del socio e del rapporto tra le quote nella disciplina delle operazioni sul capitale … – 9. Segue. … e nella restante disciplina della s.r.l.

1. Premessa. – Il diritto di opzione costituisce, in diversi ordinamenti, e a livello generale, una delle prerogative del socio di società di capitali sulle quali più si è concentrata la discussione della dottrina e della giurisprudenza in materia societaria1. Il diritto a sottoscrivere il capitale sociale a seguito di una delibera di aumento dello stesso, in proporzione alla partecipazione sociale di cui si risulta titolari, rappresenta, infatti, uno dei diritti fondamentali di cui si compone la Mitgliedschaft in una società di capitali 2; esso è stato…

L’aumento del capitale sociale

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CAPITOLO DODICESIMO
L’AUMENTO DEL CAPITALE SOCIALE

SOMMARIO: Introduzione. – 1. Aumento del capitale sociale: nozione. – 2. Aumento del capitale sociale mediante nuovi conferimenti: procedimento e presupposti. L’art. 2481, comma 2°, c.c. – 3. Segue: contenuto della decisione di aumento del capitale sociale. L’inscindibilità e la parte dell’aumento del capitale sociale non sottoscritta. – 4. Segue: il diritto di sottoscrizione del socio e la sua esclusione. Il diritto di recesso a favore del socio. – 5. Segue: la sottoscrizione della partecipazione e l’esecuzione dei conferimenti. La pubblicità dell’aumento del capitale e la sua efficacia. – 6. Aumento del capitale mediante imputazione di riserve a capitale. – 7. Aumento del capitale sociale «delegato» all’organo amministrativo: la clausola… – 8. Segue: …e la decisione dell’organo amministrativo.

L’aumento del capitale sociale rappresenta, come si è osservato subito dopo la riforma del diritto delle società di capitali del 2003, uno dei settori ove la nuova disciplina della s.r.l. risulta maggiormente innovativa e di rilevante interesse (1). Infatti la direttiva della legge delega (art. 3, comma 1°, lett. a, l. n. 366 del 2001), che imponeva al legislatore delegato di prevedere un autonomo e organico complesso di norme, ha trovato in materia di aumento del capitale sociale – nonostante il diverso tenore della Relazione (2) – una rilevante applicazione, che rende le disposizioni degli artt. 2481, 2481-bis e 2481-ter c.c. molto significative in confronto sia alla disciplina previgente, racchiusa nell’art. 2495 c.c. (3), sia a quella della s.p.a., che spesso prevede soluzioni differenti (si pensi in particolare al tema dell’esclusione del diritto di opzione, su cui si v. infra), sia a quella che può rinvenirsi negli altri ordinamenti a seguito di un’analisi di diritto comparato (4). Del resto le norme in materia di aumento del capitale sociale sono state configurate tenendo presenti, oltre al principio dell’autonomia della disciplina, altri importanti obiettivi espressi dalla legge delega con riferimento alla s.r.l.: in primo luogo, l’ampliamento degli spazi di libertà contrattuale e statutaria, pur nel rispetto della centralità del socio (sempre art. 3, comma 1°, lett. a, l. n. 366 del 2001); in secondo luogo, la semplificazione dell’operazione sul capitale dal punto di vista procedurale, pur nel rispetto dei diritti dei terzi, e in particolare dei creditori, al fine di consentire una maggiore patrimonializzazione della s.r.l. e di rafforzarne, quindi la struttura finanziaria (art. 3, comma 2°, lett. i, l. n. 366 del 2001). Una disciplina, dunque, che risulta non solo propria della s.r.l. e (almeno tendenzialmente) indipendente, ma anche caratterizzata da ampi margini di autonomia a favore dei soci (5); circostanza che talvolta rende particolarmente difficile l’interpretazione delle norme, o che rende necessaria una grande attenzione al momento della predisposizione delle relative regole statutarie (6).

1. Aumento del capitale sociale: nozione.
L’aumento del capitale sociale indica due diverse operazioni di modifica dell’atto costitutivo che hanno il medesimo effetto di accrescere la posta del patrimonio netto denominata capitale sociale nominale. Con la prima, comunemente indicata come aumento reale del capitale sociale, o a pagamento o mediante conferimenti, la società acquisisce nuovi elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica (v. art. 2464, comma 2°, c.c.); tale operazione è specificamente disciplinata, nella s.r.l., seppure in maniera incompleta, all’art. 2481-bis c.c..
Con la seconda, comunemente indicata come aumento nominale del capitale sociale, o gratuito o mediante imputazione di riserve a capitale, la società effettua un’operazione contabile, assoggettando alla disciplina del capitale sociale le riserve o i fondi disponibili; essa è disciplinata, nella s.r.l., all’art. 2481-ter c.c..
Discussa è la legittimità di “aumenti del capitale misti”, ossia in parte gratuiti, in parte a pagamento. Se la decisione di aumento del capitale gratuito precede quella a pagamento, non pare vi possano essere dubbi, in quanto i soci attuali possono beneficiare dell’aumento gratuito, anche se non esercitano il diritto di sottoscrizione su quello a pagamento. Se la decisione di aumento a pagamento, invece, precede quella di aumento gratuito, l’operazione può comportare delle perplessità, per il rischio che si ledano i diritti dei soci che non sottoscrivono l’aumento gratuito, e che si possano creare delle situazioni di disparità di trattamento a seconda del momento in cui i soci sottoscrivano l’aumento a pagamento (7).
Le operazioni di aumento del capitale hanno sia un rilievo organizzativo per la società, in quanto determinano una modifica dell’atto costitutivo, e, in particolare e come si diceva, del capitale sociale nominale (così incidendo sulla distribuibuibilità dell’utile e sulla misura del finanziamento destinato all’esercizio dell’impresa); sia un rilievo specifico per la posizione soggettiva dei soci, in quanto le operazioni di aumento possono modificare la partecipazione del singolo alla società sia dal punto di vista patrimoniale che amministrativo (8).


Società estinta e procedimento per la dichiarazione di fallimento

Corte d’Appello di Napoli, Sez. I, 8 febbraio 2012 – Pres. Frallicciardi – Est. Celentano – C. D. M. liquidatore
D. S. S.r.l. c. Fallim. D. S. S.r.l. e B. di S. S.p.a.

Fallimento – Soggetti – Societa- Estinzione – Mancata partecipazione degli ex soci – Reclamo – Nullità della sentenza di fallimento

(legge fallimentare artt. 10, 15, 18; cod. civ. art. 2495)

Nel caso in cui la società sia stata cancellata dal registro delle imprese sono gli ex soci, da considerarsi quali successori a titolo universale della società estinta, a dover essere convocati all’udienza prefallimentare; la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata senza la previa instaurazione del contraddittorio nei confronti degli ex soci deve considerarsi nulla.

Il Tribunale (omissis).

1. Il suindicato reclamo e` stato proposto entro i trenta giorni successivi al deposito in cancelleria della sentenza impugnata e dunque e` certamente tempestivo.
2.
Il ricorso che lo contiene ed il pedissequo decreto di fissazione per la data odierna dell’udienza di comparizione delle parti emesso dal Presidente di questa Corte il 19 ottobre 2011 risultano poi tempestivamente notificati dal reclamante all’unico creditori ricorrente per il falli- mento ed al Curatore del fallimento in data 28 ottobre/9 novembre 2011.
3. Con il reclamo in esame il D. M., già liquidatore della D. S. S.r.l., cancellata dal registro delle imprese per la chiusura della sua liquidazione il 22 ottobre 2010, sostiene:
1) di non essere stato posto in grado di spiegare le sue difese nel procedimento prefallimentare a causa della nullità della notificazione, a lui diretta in quanto legale rappresentante e liquidatore della D. S. S.r.l., del ricorso di fallimento nei confronti di questa società proposto dalla B. di S. S.p.A. e del conseguente decreto di convocazione innanzi al Tribunale di Torre Annunziata;
2) che competente a dichiarare il fallimento della società di cui egli era liquidatore era il Tribunale di Cagliari, e non già quello di Torre Annunziata, avendo detta società trasferito la sua sede legale da Cagliari a Torre del Greco con deliberazione assembleare del 30 settembre 2010, iscritti nel registro delle imprese il 18 ottobre 2010;
3) che comunque la predetta società non possedeva i requisiti per la sua sottoposizione a fallimento ai sensi dell’art. 1 l.fall.
4. L’esame delle doglianze del reclamante può pero essere omesso, dovendo rilevarsi d’ufficio un più radicale vizio di nullità della sentenza impugnata. In due recenti pronunzie, (Cass. 5 novembre 2010, n. 22547; Cass. 31 maggio 2011, n. 12018), la Suprema Corte ha affermato che, nel caso in cui sia chiesto il fallimento di una società di capitali cancellata dal registro delle imprese e perciò, giusto quanto disposto dall’art. 2495 c.c. (come modificato dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), senz’altro estintasi come soggetto giuridico, il soggetto che deve essere convocato nel procedimento prefallimentare come controparte del ricorrente va individuato nel liquidatore della società cancellata; conclusione, questa, che la prima di tali pronunce in sostanza fonda sull’impossibilita di immaginare una diversa soluzione da quella della ‘‘persistenza degli organi societari ai soli fini della dichiarazione di fallimento’’ della società cancellata, sia pur nei limiti temporali di cui all’art. 10 l.fall., mentre la seconda motiva esclusivamente con l’interesse dell’ultimo liquidatore ‘‘ad essere sentito in sede prefallimentare per le conseguenze, anche penali, che può avere nei suoi confronti la dichiarazione di fallimento’’.
Sennonché, questa Corte non riesce a comprendere come sia concepibile che un organismo ormai estinto per il mondo giuridico, come deve ritenersi sia il caso della società di capitali cancellata dal registro delle imprese a seguito della chiusura della sua liquidazione, possa stare in giudizio o comunque avere propri rappresentanti organici, volontari o legali, che lo rappresentino in giudizio, cosı come in qualsiasi rapporto giuridico.
Sicché delle due l’una: o si ammette che la società di capitali cancellata dal registro delle imprese non si estingue totalmente, ma rimane in vita, anche se ai soli fini dell’eventuale dichiarazione del suo fallimento, oppure si deve riconoscere che essa non può stare in giudizio né in persona del suo ultimo liquidatore o comunque del suo ultimo rappresentante legale né in persona di altro soggetto giuridico.
La prima alternativa pare però impraticabile di fronte alla chiara ed ampia formula di apertura ed alla genesi storica dell’art. 2495, comma 2, c.c. – evidente reazione del legislatore al consolidato orientamento giurisprudenziale che in sostanza collegava l’estinzione delle società di capitali cancellate dal registro delle imprese all’estinzione di ogni situazione giuridica soggettiva di cui esse fossero titolari, dal lato attivo o da quello passivo – ed alle sue conseguenze pratico-giuridiche. Ad accoglierla dovrebbe invero a rigore ammettersi la sopravvivenza della società cancellata dal registro delle imprese, con la correlata persistenza della sua capacità di essere titolare di diritti ed obblighi, sia pur ai limitati fini dell’eventuale dichiarazione del suo fallimento, non solo per tutto l’anno successivo alla sua cancellazione dal registro, ma per un periodo di tempo indefinibile a priori (quale sarebbe almeno quello necessario per la chiusura della procedura fallimentare eventualmente aperta nei suoi confronti e la definizione dei giudizi di impugnazione avverso l’eventuale dichiarazione del suo fallimento), con la conseguenza che, per tutto tale periodo, dovrebbe riconoscersi, ad esempio, che la medesima società possa, mediante una decisione dei soci assunta nelle forme previste a seconda del tipo o dello statuto societario, sostituire l’ultimo liquidatore della società ovvero debba sostituirlo nel caso in cui quest’ultimo muoia o perda la capacità di rivestire tale carica e debba pagargli un compenso. Il che pare francamente in netto ed irriducibile contrasto con la voluntas legis.
D’altronde, viene naturale confrontare la situazione della società cancellata dal registro delle imprese con quella dell’imprenditore individuale defunto, il quale certamente non può introdurre un giudizio né essere chiamato a parteciparvi (e può continuare ad essere parte in senso sostanziale di un giudizio già iniziato da lui o nei suoi confronti quand’egli era ancora in vita solo per un’eccezionale fictio iuris).
Deve pertanto innanzitutto concludersi che (almeno) la società di capitali (o cooperativa) cancellata dal registro delle imprese a seguito della chiusura della sua liquidazione della quale sia richiesto il fallimento, in quanto soggetto ormai giuridicamente inesistente, non può essere parte del procedimento prefallimentare, così come non può chiedere la dichiarazione del suo fallimento, e non può avere propri rappresentanti, organici, volontari o legali. Potrebbe allora ritenersi che il procedimento volto alla verifica delle condizioni per l’eventuale dichiarazione del suo fallimento possa svolgersi con la partecipazione del solo ricorrente, così come, prima della riforma della legge fallimentare di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006, si riteneva possibile nel caso dell’istanza di fallimento di un imprenditore individuale defunto (v.: Cass. 7 febbraio 2006, n. 2594; Cass. 9 marzo 2000, n. 2674; Cass. 15 maggio 1993, n. 5869).
Questa soluzione era pero, prima della riforma di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006, apparsa ragionevole perché all’epoca la dichiarazione di fallimento seguiva ad un procedimento sommario in cui soltanto per effetto dell’intervento della Corte costituzionale e soltanto in misura minima era garantito un pieno contraddittorio, che invece poteva dispiegarsi pienamente nel successivo giudizio di opposizione, che infatti anche gli eredi dell’imprenditore individuale defunto dichiarato fallito erano legittimati a promuovere. Sicché pare incongrua ora che il procedimento per la dichiarazione di fallimento, pur conservando forme camerali, e stato disciplinato dal nuovo art. 15 l.fall. in modo tale da trasformarlo in un giudizio a cognizione piena, con la conseguente abolizione del giudizio di opposizione innanzi al medesimo tribunale che aveva pronunziato la sentenza dichiarativa di fallimento previsto dal vecchio art. 18 l.fall.
Risulta pertanto ragionevole ritenere che il procedimento per la dichiarazione del fallimento di un imprenditore individuale defunto debba svolgersi nei confronti degli eredi di quest’ultimo, non già quali rappresentanti, bensì in quanto successori a titolo universale del de cuius e dunque in proprio o, in mancanza, del curatore dell’eredità giacente e, parallelamente, che il procedimento per la dichiarazione del fallimento di una società di capitali estinta debba svolgersi nei confronti dei soci di quest’ultima. Pur potendo sembrare ardito definirli successori a titolo universale della società estinta, i soci delle società di capitali estinte invero rispondono dei debiti sociali, anche se fino alla concorrenza delle somme riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, giusto quanto disposto dall’art. 2495, comma 2, c.c., così come gli eredi con beneficio d’inventario rispondono dei debiti del de cuius nei limiti di quanto abbiano da costui ricevuto, giusto quanto disposto dall’art. 490, comma 2, n. 2, c.c. Inoltre, secondo la tesi che pare preferibile (per la quale v. anche Cass. 3 novembre 2011, n. 22863), i soci delle società di capitali estinte succedono a queste nella titolarità delle attività sociali eventualmente residuate alla liquidazione, come appunto se ne fossero i successori a titolo universale.
Il liquidatore di una società di capitali estinta invece – oltre a non poter più essere considerato, per le ragioni in precedenza esposte, il legale rappresentante di tale società – risponde, sempre ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c., soltanto dei debiti sociali che non siano stati pagati per sua colpa, sicché il fondamento di tale sua responsabilità non può rinvenirsi in un fenomeno di carattere, sia pur lato sensu, successorio, bensì nel suo venir meno ai suoi obblighi e dunque in un comportamento illecito. Sicché, sebbene sia certamente tra i soggetti potenzialmente interessati ad evitare la dichiarazione del fallimento della società estinta, poste le conseguenze, anche penali, che potrebbero derivargliene, e gli si debba pertanto riconoscere la legittimazione ad intervenire volontariamente nel procedimento volto alla verifica dei presupposti di tale dichiarazione ed a proporre le impugnazioni previste dalla legge, non può essere considerato in alcun modo il successore di detta società.
La sentenza nella specie impugnata da C. D. M. deve pertanto ritenersi nulla in quanto pronunziata senza la previa instaurazione del contraddittorio nei confronti di coloro che, insieme al medesimo reclamante, risultano essere stati gli ultimi soci della D. S. S.r.l., cioè A. ed A. D. M.
5. Alla dichiarazione della sua nullità non consegue però la rimessione del procedimento al giudice di primo grado, poiché è ormai decorso più di un anno dalla data in cui la predetta società venne cancellata dal registro delle imprese a seguito della chiusura della sua liquidazione.
6. Il contrasto della presente decisione con l’orientamento della Corte di cassazione in ordine alla questione in precedenza esaminata induce a ritenere sussistenti i presupposti per l’integrale compensazione delle spese del giudizio di reclamo tra le parti che vi si sono costituite, considerato anche che, se la predetta questione fosse stata risolta in senso conforme alla giurisprudenza di legittimità: il primo motivo di doglianza proposto dal D. M. sarebbe stato rigettato, non avendo il reclamante fornito prove sufficienti a concludere che egli, il 28 luglio 2011, non conviveva nemmeno temporaneamente con la madre, posto che a dare tale dimostrazione non basta il fatto che all’epoca egli risiedeva anagraficamente altrove; il secondo motivo di reclamo, pur se fosse stato accolto, non avrebbe inciso sulla validità della sentenza impugnata,
stante quanto disposto dall’art. 9 bis l.fall.; il terzo motivo di reclamo sarebbe stato rigettato per non aver il reclamante fornito alcuna prova che la società fallita non possedeva i requisiti di cui alle lettere a) e b) del secondo comma dell’art. 1 l.fall.
(Omissis).

Societa` estinta e procedimento per la dichiarazione di fallimento


La sentenza in commento affronta la questione della partecipazione al procedimento prefallimentare della società cancellata dal registro delle imprese. La Corte d’Appello di Napoli ritiene che a seguito dell’estinzione della società si verifichi un fenomeno analogo a quello della successione a titolo universale, e di conseguenza
statuisce che siano i soci della società cancellata dal registro delle imprese a dover essere convocati
all’udienza ex art. 15 l. fall. La decisione offre numerosi spunti di riflessione.


1. La sentenza della Corte di Appello di Napoli
Una società dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Torre Annunziata propone reclamo contro tale pronuncia in considerazione dei seguenti motivi: i) pretesa nullità della notifica a comparire all’udienza prefallimentare effettuata al legale rappresentante e liquidatore, in quanto la notifica sarebbe stata effettuata in luogo diverso dalla residenza; ii) pretesa incompetenza del Tribunale di Torre Annunziata, per avere la società trasferito la sede legale da altro luogo pochi giorni prima della iscrizione della cancellazione; iii) pretesa assenza dei requisiti dimensionali ai sensi dell’art. 1 l.fall. La Corte d’Appello succintamente ritiene infondati i motivi di reclamo; in particolare, per quanto riguarda il secondo, considera irrilevante la censura in virtù dell’art. 9 bis l.fall.
Tuttavia il Giudice di secondo grado ritiene di rilevare d’ufficio un vizio più radicale, di nullità della sentenza impugnata, in quanto il Tribunale ha convocato nel procedimento prefallimentare il liquidatore della società cancellata, e non, come invece avrebbe dovuto fare a parere della Corte d’Appello di Napoli, gli ex soci. Secondo la sentenza non può, infatti, ritenersi corretta la convocazione del liquidatore: a seguito dell’iscrizione della cancellazione della società (almeno di capitali), quest’ultima deve ritenersi estinta ad ogni effetto ai sensi dell’art. 2495, comma 28, c.c. Pertanto, l’art. 10 l.fall., che consente la dichiarazione di fallimento per un anno da tale cancellazione, va interpretato non nel senso che la società continui ad esistere ai soli fini dell’eventuale dichiarazione del suo fallimento (1); ma, in parallelo con quanto avviene per l’imprenditore individuale defunto, nel senso che il procedimento per la dichiarazione di fallimento debba svolgersi nei confronti dei soggetti considerati successori a titolo universale della società estinta, e quindi degli ex soci. Di conseguenza, non essendo quest’ultimi stati convocati nel corso del procedimento prefallimentare, la sentenza deve ritenersi nulla; ed essendo ormai decorso, al momento della sentenza della Corte d’Appello, più di un anno dalla data della cancellazione, non si può far luogo ad una rimessione del procedimento al Giudice di primo grado ai sensi dell’art. 354 c.p.c.

2. La società estinta: questioni aperte
L’analisi delle conseguenze dell’iscrizione della cancellazione di una società dal registro delle imprese ha assunto, dopo la riforma del diritto societario del 2003, un’eccezionale rilevanza: da un lato perché, come noto, il legislatore ha voluto chiarire l’effetto estintivo collegato a tale iscrizione (per lo meno per le società di capitali) (2), inserendo l’incipit ‘‘ferma restando l’estinzione della società’’ all’art. 2495, comma 28, c.c. (3); d’altro lato perché la Corte Suprema, con una serie di decisioni, di cui tre a Sezioni Unite (4), ha avallato tale interpretazione, che è divenuta di conseguenza assolutamente dominante, oltre che in dottrina (che in via prevalente si esprimeva in questo senso già prima della riforma), in giurisprudenza, ora anche tributaria (5). Giada tempo e stato segnalato che il terreno di verifica delle ricostruzioni sistematiche in merito alla cancellazione della società dal registro delle imprese è costituito dalla soluzione dei problemi della fattispecie (6). L’effetto estintivo collegato all’iscrizione della cancellazione pone, infatti, vari quesiti, peraltro tra loro spesso collegati: di diritto societario, in particolare con riferimento alle sorte delle sopravvenienze attive e delle sopravvenienze passive, materia su cui il legislatore, nonostante il tenore della legge delega, ha ritenuto di non prendere posizione (7); di diritto processuale civile, con riferimento agli effetti che la cancellazione determina sui processi da iniziare e nelle varie fasi del giudizio pendente (8), questione che ha determinato la Corte di Appello di Milano a sollevare, di recente, la questione di legittimità costituzionale della disciplina (9), nonché la prima sezione della Corte di Cassazione a trasmettere gli atti al Primo Presidente, per l’assegnazione eventuale alle Sezioni Unite (10); di diritto penale e processuale penale (11); infine, ed è il tema della sentenza, di diritto fallimentare, in considerazione del disposto dell’art. 10 l. fall. e del non suo facile e immediato coordinamento con l’art. 2495 c.c. (12).

3. Il fallimento della società estinta: permane un ruolo dell’ex liquidatore?
Come si accennava nel sintetizzare il contenuto della decisione, due sono i passaggi fondamentali della motivazione della sentenza. Il primo è il seguente: la cancellazione della società dal registro delle imprese ne determina l’estinzione ad ogni effetto, e quindi non è immaginabile che la società permanga in vita con propri rappresentanti neppure ai limitati fini della dichiarazione di fallimento.
Il secondo e consequenziale passaggio è il seguente: la società estinta deve essere rappresentata, così come accade nel caso di istanza di fallimento nei confronti dell’imprenditore defunto, da chi può essere assimilato ad un successore universale, ossia, nel caso di specie, dagli ultimi soci.
Già nell’affrontare il primo punto della motivazione la Corte d’Appello di Napoli assume consapevolmente una soluzione che contrasta con l’orientamento prevalente, fatto proprio da due sentenze della Corte di Cassazione. Secondo quest’ultima, infatti, nel caso in cui sia chiesto il fallimento di una società di capitali cancellata dal registro delle imprese il soggetto che rappresenta l’ente, e che quindi deve essere convocato nel procedimento prefallimentare, è l’ultimo rappresentante legale e quindi il liquidatore. La Suprema Corte sostiene quest’orientamento per due ragioni: la persistenza degli organi sociali ai soli fini della dichiarazione di fallimento (13); e l’interesse dell’ultimo rappresentante legale a partecipare all’udienza prefallimentare (e ad impugnare la eventuale sentenza dichiarativa di fallimento) per le conseguenze anche penali che può avere tale dichiarazione nei suoi confronti
(14).
Gli argomenti utilizzati dalla sentenza in commento paiono sul punto condivisibili. Da un lato, la tesi della Cassazione in tali pronunce si pone in contrasto con il disposto dell’art. 2495, comma 28, c.c., in quanto sembra determinare la sopravvivenza (sia pure limitata al giudizio fallimentare) della società e delle funzioni dell’ultimo legale rappresentante (15). D’altro lato, la tesi che rileva il potenziale interesse dell’ex liquidatore ad evitare la dichiarazione di fallimento della società estinta può valere per riconoscergli la legittimazione ad intervenire volontariamente nel procedimento; non, necessariamente, ad esserne parte in quanto rappresentante della società (e tantomeno per essere, in base a quanto si dirà appresso, successore della stessa). Del resto il sistema già conosce altre ipotesi in cui vi e` il fallimento di un patrimonio senza imprenditore (o, se si preferisce, di soggettivizzazione temporanea di un patrimonio): in particolare nel caso, molto vicino sotto molteplici profili e richiamato

4. Il ruolo degli ex soci e l’udienza prefallimentare
Più delicata risulta la valutazione del secondo passaggio chiave della motivazione, che pare potersi scindere in due ulteriori argomenti. In primo luogo la Corte d’Appello considera gli ex soci successori a titolo universale della società ; in secondo luogo ritiene necessario che, in quanto…

“Deroga” all’atto costitutivo di s.r.l. in tema di liquidazione del socio receduto e conversione della decisione in patto parasociale

Sommario: 1. Il problema: la decisione dei soci che «deroga» all’atto costitutivo (Satzungsdurchbrechung). – 2. Un caso in tema di determinazione del valore di liquidazione della partecipazione del socio receduto. – 3. Deroghe puntuali e con effetti protratti: legittimità ed efficacia delle deroghe puntuali. – 4. Interpretazione o conversione della deroga con effetti protratti in patto parasociale. – 5. Validità del patto parasociale concernente la determinazione del valore di liquidazione della quota del socio receduto e opponibilità del patto al socio da parte della società.

1. Il problema: la decisione dei soci che «deroga» all’atto costitutivo (Satzungsdurchbrechung).
Non è infrequente che tutti i soci di una società di capitali, in particolare s.r.l., assumano delle decisioni che divergono rispetto al contenuto dell’atto costitutivo, senza deliberare, tuttavia, una formale modifica delle regole statutarie.
Le finalità possono essere varie; di norma lo scopo è quello di disciplinare occasionalmente, ossia una tantum, una determinata situazione in modo difforme dalle previsioni organizzative, destinate a rimanere efficaci e vincolanti per ogni caso futuro: si pensi alla necessità di consentire l’alienazione, da parte di un socio, della partecipazione nel caso in cui nell’atto costitutivo sia inserito un divieto assoluto di circolazione della quota ex art. 2469 c.c.1; oppure all’accantonamento a riserva, in occasione della delibera di approvazione del bilancio di esercizio, della parte degli utili che l’atto costitutivo prevede siano distribuiti ai soci2.
In altri casi si vuole modificare sempre temporaneamente, ma non occasionalmente, il contenuto delle regole statutarie senza l’osservanza del procedimento previsto dalla legge all’art. 2480 c.c., in quanto ritenuto inutile o costoso: si pensi alla decisione con cui si prevede che la durata della carica di un particolare amministratore sia fissata, all’atto della preposizione, in termini diversi da quanto stabilisce l’atto costitutivo3; alla liberazione, a favore di un amministratore o di un socio, dal rispetto di un obbligo di non concorrenza previsto statutariamente a loro carico.
Non è, però, altrettanto infrequente che queste decisioni (c.d. deroghe allo o disapplicazioni dell’atto costitutivo o, nella terminologia tedesca, Satzungsdurchbrechung4) possano determinare comportamenti opportunistici da parte di alcuni dei soci, i quali, in seguito, e per varie ragioni, ne invocano l’invalidità o inefficacia per evitare di soggiacervi; e assumono tale posizione proprio in considerazione della mancata adozione del formale procedimento di modifica statutaria.
Si discute, pertanto, della legittimità e dell’efficacia di siffatta deroga all’atto costitutivo: una deviazione dalla regola statutaria concordata tra tutti i soci, che può – come si diceva – avere un effetto occasionale, o anche avere efficacia temporanea, seppure protratta nel tempo; una decisione che non è formalmente una modifica statutaria, perché non ne rispetta il procedimento, ma neppure costituisce una vera e propria violazione della regola dell’atto costitutivo, perché questa rimane vincolante per ogni altro caso futuro5.
Il tema sembra, nell’ambito delle società di capitali, avere il proprio terreno di elezione all’interno della s.r.l. e in particolare della (di norma riscontrabile nella realtà imprenditoriale italiana) s.r.l. con assetto di interessi personalistico o chiusa6; molto probabilmente l’unico terreno di elezione7, come del resto si ritiene in prevalenza con riferimento al problema, connesso come si vedrà, del rilievo sul piano organizzativo dei patti parasociali sottoscritti da tutti i soci8.
Non sembra, infatti, ma non è questa la sede per approfondire l’analisi, che possano di norma avere una qualche rilevanza le deroghe allo statuto decise dai soci di una s.p.a. Ciò in considerazione della naturale apertura a terzi dell’impresa azionaria, e quindi della necessità di un’interpretazione e applicazione oggettiva e formale delle regole9; o, se si preferisce, per la sola rilevanza, in tale tipo, delle disposizioni che formano il testo dello statuto, perché il mercato – cui sono naturalmente destinate le partecipazioni nell’impresa azionaria – avverte un’esigenza di univocità delle regole10.
Nonostante la possibile diversità di conclusioni, l’analisi del problema delle deroghe all’atto costitutivo (come anche quella dell’interpretazione degli statuti) si è concentrata, nel nostro ordinamento, e per note ragioni storiche, sulla disciplina della s.p.a., con successiva estensione delle conclusioni alla s.r.l. Inversamente in altri ordinamenti, e in particolare in quello tedesco, l’analisi è incentrata su quest’ultimo tipo11. Il che pare possa giustificare una specifica trattazione, alla luce delle rilevanti innovazioni alla s.r.l. introdotte dalla riforma del diritto delle società di capitali e dalle successive modifiche legislative.

2. Un caso in tema di determinazione del valore di liquidazione della partecipazione del socio receduto.
L’esame è sollecitato da un recente e interessante caso deciso dalla Suprema Corte tedesca12.
I soci di una s.r.l. (qualificata dalla stessa decisione come Manager-GmbH, ossia una società nella quale vi è un stretta connessione tra ruolo del socio e ruolo di amministratore13) decidono, con consenso unanime, di modificare le modalità di determinazione del valore di liquidazione previste dall’atto costitutivo in caso di recesso o esclusione del socio al termine dell’attività lavorativa a favore della società. Nello specifico decidono di ridurre tale possibile valore. La delibera, assunta con l’espressa finalità di preservare il patrimonio della società, e quindi di facilitare l’ingresso di nuovi soci nell’ottica dello sviluppo dell’attività d’impresa, non segue però le forme della modifica statutaria, e quindi non riveste forma notarile né viene iscritta a registro delle imprese.
Successivamente, dopo alcuni anni, un socio recede, e pretende la liquidazione del valore della sua partecipazione non secondo quanto stabilito dalla decisione, e quindi per un importo – a parere dell’impugnante – eccessivamente ridotto; ma secondo quanto stabilito dall’atto costitutivo, in quanto il socio sostiene l’inefficacia o comunque l’invalidità della decisione. L’attore pretende di essere pagato alle condizioni originarie e ben più favorevoli, in ipotesi derogate dalla decisione unanime (e quindi anche con il suo consenso), ma in modo inefficace.
Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello danno ragione al socio recedente, in considerazione dell’orientamento, prevalente nella dottrina tedesca, per cui la deroga all’atto costitutivo ha effetto solo se puntuale, e quindi solo se si esaurisce nel disciplinare una singola circostanza o operazione; non, invece, se i suoi effetti perdurano nel tempo e possono determinare una stabile divergenza con le regole statutarie, in considerazione dell’esigenza di tutelare i futuri soci e i terzi rispetto al contenuto delle regole organizzative. Nel caso di specie a parere delle Corti la decisione di modificare le modalità di determinazione del valore di liquidazione non ha effetto puntuale, ma protratto nel tempo, in quanto può applicarsi anche ai successivi casi di recesso da parte dei soci che non hanno partecipato alla decisione medesima; e deve, quindi, considerarsi nulla14.
La Suprema Corte tedesca, invece, cassa la sentenza di secondo grado, e rimette la controversia ai giudici di merito per valutare se la decisione, assunta con il consenso di tutti i soci, invalida o inefficace sul piano sociale, possa in sede di interpretazione o di conversione considerarsi un patto parasociale; se tale patto sia valido; e se, ulteriormente e in caso affermativo, possa considerarsi un contratto a favore della società, che quest’ultimo potrebbe pertanto opporre per contestare la pretesa del socio15.

3. Deroghe puntuali e con effetti protratti: legittimità ed efficacia delle deroghe puntuali.
Il caso esaminato, che non è l’unico che può riscontrarsi nella giurisprudenza sia italiana che comunitaria16, sollecita l’analisi anche nel nostro ordinamento del tema delle deroghe all’atto costitutivo nella s.r.l.
Secondo la dottrina tedesca, che ha particolarmente approfondito il tema anche in considerazione della giurisprudenza in argomento, si ha una deviazione o deroga all’atto costitutivo quando una determinata decisione dei soci, assunta con il consenso di tutti, non segue il necessario procedimento di modifica statutaria, e quindi non risulta formalizzata in forma notarile oppure, pur se rivestita di tale forma, non viene iscritta a registro delle imprese17.
Non si pone, quindi, nel caso di specie, un problema – come noto, molto discusso – di distinzione del sociale dal parasociale, che impone innanzitutto di chiedersi se una determinata previsione inserita nell’atto costitutivo sia priva di valore corporativo e sia dotata, invece, solo di valore contrattuale o interindividuale, in quanto il socio è coinvolto uti singulus18.

La cessione d’azienda

Estratto al volume:
TRATTATO DEI CONTRATTI
diretto da
VINCENZO ROPPO
condirettore
ALBERTO M. BENEDETTI

II CESSIONE E USO DI BENI

Capitolo VIII
LA CESSIONE D’AZIENDA (*)
di Marco Speranzin e Andrea Tina

1. Premessa — 2. Azienda e impresa — 3. I beni che costituiscono l’azienda — 4. Segue. I contratti c.d. aziendali — 5. Segue. L’avviamento — 6. La natura giuridica dell’azienda (cenni) — 7. Trasferimento d’azienda e trasferimento di beni aziendali — 8. Segue. Formalità del trasferimento d’azienda e conflitto tra più acquirenti — 9. Trasferimento mortis causa e donazione d’azienda — 10. Gli effetti legali del trasferimento: le garanzie e il divieto di concorrenza a carico del cedente. — 11. Il trasferimento dei contratti — 12. Crediti e debiti inerenti all’azienda — 13. Usufrutto e affitto dell’azienda — 14. Segue. Il contratto di affitto dell’azienda nel caso di sopravvenuto fallimento. Leasing e comodato dell’azienda — 15. Il trasferimento dell’azienda bancaria — 16. La vendita e il conferimento dell’azienda nelle procedure concorsuali — 17. Segue. L’affitto dell’azienda nel corso delle procedure concorsuali.

1. Premessa
L’art. 2555 definisce l’azienda come il « complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa » (1).
Secondo la nozione tracciata dall’art. 2555, l’azienda costituisce, quindi, l’apparato strumentale di cui l’imprenditore si avvale [recte, può avvalersi (2)] per e nell’esercizio della propria impresa (3), intesa quest’ultima come l’esercizio professionale di « un’attività economica organizzata al fine della produzione o della scambio di beni o di servizi » (art. 2082).
Ancorché il termine azienda non assuma un significato univoco (assoluto) nelle diverse disposizioni normative in cui è impiegato dal legislatore (4), venendo talora impropriamente sovrapposto al distinto concetto di impresa, rimane, comunque, fermo il rilievo normativo proprio dell’art. 2555 quale « norma “definitoria” » (5). Più in particolare, se si considera, come da più parti segnalato, che l’azienda è presa in considerazione dal codice civile in vista, essenzialmente, della sua circolazione (6) e che la relativa disciplina è dettata dagli artt. 2556-2562 sulla base, appunto, della nozione di azienda offerta dall’art. 2555 (7), è alla definizione di complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa che si deve far « necessario riferimento ogni qual volta si tratti, nel nostro diritto, di determinare lo specifico contenuto di singole norme in materia di azienda » (8).

2. Azienda e impresa.

Confermato il rilievo normativo della definizione di cui all’art. 2555, la lettura coordinata degli artt. 2555 e 2082 (9) delinea chiaramente il rapporto di mezzo a fine che sussiste tra azienda e impresa (10), rapporto che trova espressione nel vincolo di destinazione che lega tra loro i beni organizzati e coordinati dall’imprenditore in vista del medesimo scopo produttivo (11), evidenziando, al contempo, la reciproca interferenza [o dipendenza (12)] tra complesso aziendale e impresa [o imprenditore (13)].
Da un lato, l’azienda può essere, infatti, considerata il risvolto oggettivo in cui può trovare espressione il requisito dell’organizzazione richiesto dall’art. 2082 per l’acquisto della qualifica di imprenditore (14), nonché, implicando « la tendenziale permanenza del vincolo strumentale » del complesso aziendale, il principale indice rivelatore della stessa professionalità (15).
Dall’altro lato, l’azienda costituisce non soltanto lo strumento mediante il quale l’imprenditore provvede [rectius, può provvedere (16)] all’esercizio della propria attività, ma anche il risultato della stessa attività imprenditoriale, potendo, infatti, essere oggetto nel tempo di una continua e costante

Trasformazione fusione, scissione

opera diretta da
Antonio Serra

coordinata da
Ivan Demuro

con la collaborazione di
Francesco Avella, PierDanilo Beltrami, Angelo Bertolotti Daniela Boggiali, Diana Burroni, Oreste Cagnasso Giuseppe Carraro, Francesco Casale, Michele Centonze Antonio Cetra, Cristiano Cincotti, Alfredo D’Aniello, Marco D’Arrigo, Ivan Demuro, Alberto De Pra, Giovanni Diele Matteo Erede, Sebastiano Garufi, Euplio lascone, Elisabetta loffredo, Marco Maltoni, Mariateresa Quaranta Gabriele Racugno, Antonio Ruotalo, Valentino Sanna Marcella Saraie, Alessio D. Scano, Antonio Serra, Marco Speranzin, Giovanni Supino, Manuela Tola

Capitolo Terzo
Trasformazione di società di persone
Di MARCO SPERANZIN

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La trasformazione all’interno delle società di persone – 3. La trasformazione della società semplice e della società irregolare – 4. la trasformazione di società di persone in società di capitali: la decisione – 5. (Segue): le modifiche collegate alla decisione di trasformazione e la rilevanza del principio di maggioranza – 6. La tutela dei soci. Il diritto di recesso del socio che non ha concorso alla decisione – 7. (Segue): l’assegnazione delle partecipazioni ai soci. In particolare nel caso di socio d’opera- 8. La tutela dei creditori sociali. La relazione di stima ai fini della determinazione del capitale sociale – 9. (Segue): la responsabilità dei soci a seguito della trasformazione -1 O. (Segue): la fallibilità in estensione dei soci a seguito della trasformazione-11. La trasformazione eterogenea di società di persone lucrative (cenni)-12. Un’ipotesi discussa: la trasformazione di società di persone in impresa individuale

1.   Premessa
La disciplina specificamente dedicata alla trasformazione di società di persone è contenuta agli artt. 2500 ter e ss. c.c. In queste nonne è disciplinata, tuttavia, solo la c.d. trasformazione omogenea   evolutiva o regressiva tra società lucrative, ossia la trasformazione che si risolve in un cambiamento del tipo e nell’evoluzione della c.d. classe, e quindi il passaggio da società di persone in società di capitali, oppure viceversa, con il mantenimento dello scopo di lucro (su cui v. infra, i parr. 4 e ss.).
Nulla è espressamente disposto, invece, con riferimento alla trasformazione all’interno delle società di persone lucrative (su cui v. infra, il par. 2); né con riferimento alla c.d. trasformazione a funzione non lucrativa costante; né con riferimento alla trasformazione eterogenea da e in società di persone (su cui v. infra, i parr. 11 e 12 nonché i Capitoli Quinto e Sesto).
Ciò in quanto, in linea con le indicazioni della legge delega (1. 366 del 2001), la riforma del diritto delle società di capitali del 2003 non ha toccato gli articoli del Codice civile dedicati direttamente ed esclusivamente alle società di persone (artt. 2251 ss. c.c.).  Già in generale si è comunque osservato che le ipotesi nominate di trasformazione non impediscono la possibilità di estendere, in tutto o in parte, le relative nonne a fattispecie ulteriori.
La disciplina della trasformazione delle società di persone contenuta nel codice riveste, in ogni caso e come si vedrà, una rilevante importanza sistematica. Le norme indicate racchiudono, infatti, molteplici principi generali del diritto societario utili a risolvere questioni anche estranee alla trasformazione; e tale disciplina viene considerata la più significativa riforma del diritto delle società di persone dall’emanazione del codice civile (v. infra, i parr. 4 e ss.).

2. La trasformazione all’interno delle società di persone

La mancanza di una disciplina specifica della trasformazione da uno ad altro tipo di società di persone non comporta, secondo l’interpretazione pacifica, un divieto; l’art. 2252 c.c. consente, infatti, qualsiasi modifica del contratto sociale e, quindi, si ritiene, anche la modifica del tipo.
Il richiamo a quest’ultima disposizione pone però il problema della necessità del consenso di tutti i soci o della sufficienza della maggioranza dei soci, calcolata sulla base della partecipazione agli utili, per la relativa decisione. Ci si chiede, quindi, se per tale trasformazione interna si applichi la norma generale delle modifiche del contratto nelle società di persone (art. 2252 c.c.), oppure se possa applicarsi, in via diretta o analogica, la norma contenuta al comma 1° dell’art. 2500 ter c.c. che facilita, dal punto di vista della maggioranza necessaria, la decisione di trasformazione di società di persone in società di capitali.
Prevale, e deve ritenersi preferibile, la prima tesi, ossia quella che richiede il consenso di tutti i soci. La disposizione dell’art. 2500 ter c.c. pare, infatti, avere lo scopo [evidenziato dalla legge delega: v. art. 7, comma 1°, lett. e) l. 366 del 2001] di agevolare la trasformazione in società con responsabilità della sola società e non personale dei soci; e ciò al fine di consentire un’evoluzione della forma imprenditoriale in società dotate di un assetto organizzativo più complesso e di responsabilità limitata. La norma che consente la trasformazione di società di persone a maggioranza (ossia il menzionato comma 1° dell’art. 2500 ter c.c.) deve considerarsi, quindi, eccezionale o comunque disposizione derogatoria rispetto all’art. 2252 c.c. e, pertanto, non utilizzabile nel caso di trasformazioni all’interno delle società di persone né sulla base di un’interpretazione estensiva né per analogia.
Il contratto di società può, tuttavia, secondo quanto disposto all’art. 2252 c.c., prevedere regole diverse. Si può, ad esempio, stabilire che la decisione di trasformazione interna possa essere assunta dalla maggioranza dei soci, semplice o qualificata, calcolata per teste o sulla base della partecipazione agli utili o al capitale sociale; o differenziando in base alla categoria dei soci (ad esempio con riferimento alla s.a.s.: unanimità degli accomandatari e maggioranza degli accomandanti).
La legittimità di clausole (anche generiche) di maggioranza, già ritenuta in passato, è, quindi, a maggior ragione sostenibile a seguito della nuova disciplina.
Nel caso in cui il contratto sociale contenga la clausola di maggioranza secondo la tesi preferibile spetta ai soci che non hanno concorso alla decisione il diritto di recesso, che è attribuito dalla legge in ogni caso (v. art. 2500 ter c.c.) e quindi, si deve ritenere, anche nel caso di specie; oppure tale diritto deve considerarsi legittimo ex art. 2285 c.c., ossia per giusta causa.
L’atto di trasformazione, in quanto modificazione del contratto di società di persone (v. art. 2300 c.c.) deve essere redatto in forma pubblica o con sottoscrizione autenticata dei soci, e successivamente deve essere iscritto nel registro delle imprese ai sensi dell’art. 2296 c.c.
Sulle modalità di raccolta dei consensi v. infra, il par. 4; sulla trasforma­ zione delle società irregolare v. infra, il par. seguente.
La trasformazione interna alle società di persone può determinare una modifica della disciplina della responsabilità di alcuni dei soci per le obbligazioni della società.
In primo luogo è necessario il consenso degli eventuali soci che a seguito della trasformazione acquistano responsabilità illimitata (v. l’art. 2500 sexies, comma 1°, c.c.), come nel caso degli accomandanti qualora vi sia una trasformazione di s.a.s. in s.n.c., anche in considera­ zione del fatto che la responsabilità illimitata del socio si deve intendere estesa alle obbligazioni sociali sorte anteriormente alla trasformazione (v. art. 2500 sexies, comma 4°, c.c.).
In secondo luogo, nel caso inverso in cui venga meno la responsabilità illimitata di alcuni soci, come nel caso di trasformazione di s.n.c. in s.a.s., si deve ritenere applicabile, a tutela dei creditori sociali, l’art. 2500 quinquies, comma 1°, c.c., che subordina la liberazione dei soci dalla responsabilità per le obbligazioni sociali sorte anteriormente al consenso dei creditori. Non si ritiene, invece, applicabile, in considerazione della sua natura eccezionale, il meccanismo liberatorio di favore previsto dal comma 2° del medesimo articolo.
In terzo luogo, è orientamento condiviso che nel caso di trasformazione interna alle società di persone non ricorrano i presupposti per la predisposizione della relazione di stima prevista all’art. 2500 ter, comma 2°, c.c. per la trasformazione progressiva o evolutiva (v. il par. 8).

3. La trasformazione della società semplice e della società irregolare
Risulta pacifico che l’ente dipartenza o di arrivo della trasformazione (sia all’interno delle società di persone, sia da o verso una società di capitali) possa essere anche una società semplice: l’opinione, già diffusa in passato, è ora supportata dal tenore letterale degli artt. 2500 ter  e 2500 sexies c.c., che si riferiscono in generale alla trasformazione di società di persone. Inoltre a conferma dell’interpretazione si è osservato, dal punto di vista sistematico, che l’istituto della trasformazione è stato esteso anche alle forme non commerciali dato che queste sono sempre più spesso impiegate per lo svolgimento dell’attività: d’impresa, la cui continuità è considerata elemento fondamentale della trasformazione. Infine l’argomento contrario e basato sulla mancanza di un regime di pubblicità della società che si trasforma non è comunque più sostenibile, datò che l’ordinamento ha previsto forme di pubblicità della società semplice.
Si discute quale forma di tutela spetti ai creditori particolari dei soci di società semplice, in particolare nel caso di trasformazione in altra società di persone. I creditori particolari, infatti, vedono mutare la propria posizione: mentre in precedenza potevano chiedere la liquidazione della quota del proprio debitore ex art. 2270, comma 2°, c.c., successivamente alla trasformazione non possono più farlo, ma possono esclusivamente compiere atti conservativi sulla quota, rimedio di certo non equivalente (v. artt. 2270 e 2305 c.c.)15• Si propone, al riguardo, di consentire ai creditori particolari di esercitare il diritto di opposizione alla trasformazione, entro tre mesi dall’iscrizione dell’atto, in analogia con quanto disposto all’art. 2307 c.c.
Con riferimento, invece, ai creditori sociali, sebbene la trasformazione da società semplice determini una diversa e sfavorevole modulazione del beneficio di escussione dei soci rispetto a quanto previsto all’art. 2268 c.c., la tesi prevalente tende ad escludere l’applicazione dell’art. 2500 novies c.c. previsto per la trasformazione eterogenea e quindi ritiene non possa essere attribuito un diritto di opposizione. Si tratta di tesi forse superabile dai punto di vista interpretativo, se si considera che, a seguito della trasformazione, il patrimonio viene assoggettato ad un sistema di organizzazione per valori che lo rende stabilmente destinato all’iniziativa commerciale, con conseguente modifica della posizione dei creditori sociali, Se, quindi, si intende attribuire ai creditori una tutela in ordine alla conservazione della garanzia patrimoniale, e si ritiene che l’opposizione sia uno strumento generalmente applicabile, può concludersi che tale diritto sia esercitabile in occasione di questa trasformazione. 
Risulta discussa l’ammissibilità di una trasformazione di una società irregolare senza previa iscrizione a registro imprese della società (c.d.  regolarizzazione).
La tesi negativa osserva che la legge richiede, come si accennava al paragrafo precedente, che l’atto di trasformazione, in quanto modificazione del contratto, sia redatto in forma pubblica o con sottoscrizione autenticata dei soci, e poi venga iscritto nel registro delle imprese: e non   pare ammissibile tale iscrizione in mancanza dell’iscrizione dell’atto (il contratto di società) che si presuppone venga modificato. 
Ai fini della trasformazione secondo questa tesi è, dunque, necessaria la previa regolarizzazione della società, ossia l’iscrizione nel registro delle imprese del relativo contratto sociale unitamente all’atto di trasformazione. La tesi favorevole, nonché prevalente, osserva, invece, che la legge espressamente consente, all’art. 2500 octies c.c., la trasformazione di comunione d’azienda in società di capitali, così consentendo la trasforma­ zione di enti caratterizzati dalla totale mancanza di una disciplina pubblicitaria; sicché non avrebbe senso impedire la diretta trasformazione di una società irregolare.

4. La trasformazione di società di persone in società di capitali: la decisione
La disciplina prevista all’art. 2500 ter, comma 1°, c.c. costituisce come si accennava una rilevante novità per il diritto delle società di persone, sulla base dei criteri della legge delega [v. art. 7, comma 1°, lett. a) ed e) I. 366 del 2001] che richiedeva di semplificare e precisare il procedimento di trasformazione con particolare riferimento a quella omogenea progressiva.